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Il caso / Gli insulti alla “blogger” e il coraggio dell’editore non allineato

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Gliel’hanno fatta grossa; ad ogni modo, anche se gliel’avessero fatta assai più piccola, egli si sarebbe trovato nella necessità morale di chiudere i rapporti. Chiunque fosse l’uno, chiunque fosse l’altro. Giudizio, questo, che avremmo forse dovuto piazzare a mo’ di conclusione o di chiosa; ci si dirà alla fine se in qualche modo vi sarete sentiti prevaricati, d’accordo? Per ora, vi preghiamo di ascoltare una storia, una storia che per certi versi investe ciascuno dei lettori di qualunque prodotto editoriale (noi compresi, eccome) e ciascuno degli autori di qualunque prodotto editoriale (idem come sopra). Meglio: una storia che, per prima cosa, investe la vostra dignità di lettori spesso compartecipi, anche nella critica, di quel che vi accade di trovare stampato.

Accade infatti che stamane il coraggioso editore Gabriele Capelli (bisogna essere coraggiosi oltre l’incoscienza per restare nel mercato librario da “outsider”, ai giorni nostri), il coraggioso editore Gabriele Capelli cui qui a bottega nulla dobbiamo e ciò si precisa a scanso di equivoci, in persona giuridica “Gabriele Capelli editore Sagl” con sede in Mendrisio, insomma, rompa ogni rapporto con la società “Il taccuino” in Bologna (Italia), realtà cui era deputata la gestione dell’ufficio-stampa o, quantomeno, una quota rilevante delle relazioni esterne anche per conto dell’editore Gabriele Capelli. Notizia da addetti ai lavori? Sì, ma non in modo esclusivo; per quel che ad essa sottostà, infatti, essa è di interesse per tutti coloro che verso un libro, verso un giornale, verso un testo pubblicitario, al limite anche verso uno “slogan” esprimano un atteggiamento non passivo. Notizia valida “erga omnes”, pertanto. Primo, perché essa viene data pubblicamente e con tanto di nota dell’azienda; secondo, perché essa giunge secca ed improvvisa ed a toni duri (per solito, anche nell’eventualità di una non prosecuzione del contratto o anche nell’ipotesi di un’interruzione e di una rescissione unilaterale, entrano in gioco frasi tenui e funzionali ad annebbiare o ad occultare i motivi del cambio di rotta); terzo, perché si tratta di un licenziamento in tronco, per giusta causa, senza mezzi termini e senza opzione alcuna per un ripensamento. E, quarto ma effettivamente primo primissimo, perché la decisione è conseguente ad una follia commessa da qualcuno all’interno dell’ufficio-stampa: l’insulto per iscritto, ed anch’esso in forma pubblica, ad una “blogger” che circa un libro specifico aveva espresso valutazioni di sicuro negative, di sicuro pesantucce, di sicuro antitetiche al desiderio di coloro che un libro promuovono (e promuovono al fine di incrementare le vendite, punto), ma con pertinenza all’argomento.

D’accordo: una “blogger” non è scienza infusa, una “blogger” ha limiti, una “blogger” è autrice che sceglie di non essere sindacabile cioè di non sottoporsi al giudizio di un superiore prima di procedere alla pubblicazione; si può far finta di ignorare la cosa, ma il fatto appartiene al mondo reale. Una “blogger” avrà anche migliaia di contatti, e magari riuscirà anche a monetizzare su quel che scrive, ma si situa al limbo e con ciò abbiamo detto quel che sta a destra della virgola, cioè quel che assai meno conta. Guai invece, e qui parliamo dalle parole e dei numeri che rispetto alla virgola si situano a sinistra, a mancare di rispetto a chi scriva o commenti; soprattutto se stai lavorando in qualità di operatore alla società cui è deputato l’ufficio-stampa per conto di terzi e se hai voce in capitolo, cioè se sei colui o colei cui spetta il diritto di mettere nero su bianco a nome dell’azienda (e, come qui succede, di oltre 30 fra colleghi e superiori). In pratica: la “blogger” – che si fa chiamare Daisy, scrive almeno dal dicembre 2017 ed è titolare della pagina “Lettriceperpassioneblog” – pubblica una recensione in cui afferma di non essere riuscita a finire il libro “Vite strappate in Italia dagli Anni ’70 ad oggi”, autrice Antonella Betti, argomento delicatissimo se appena appena avete un’idea di quel che su altro versante raccontò il pedagogista ticinese Sergio Devecchi circa la propria drammatica esperienza; per tutta risposta, dalla pagina “Instagram” dell’ufficio-stampa parte un’invettiva secca all’indirizzo della menzionata Daisy, cui vengono dedicate nove parole più una congiunzione più due preposizioni. Il testo compare nell’immagine qui sopra, niente esagerazioni e niente omissioni perché non vale la pena, e non sfugge all’attenzione di destinataria, stampa e terzi. Compresi coloro che alla società “Il taccuino” affidano le sorti della propria azienda.

Alla “Gabriele Capelli editore Sagl”, immaginiamo, ci sono rimasti male. Al punto da pensarci il giusto, cioè per il tempo necessario a controllare che non si trattasse d’una bufala o di uno scherzo stupido, e da uscire con la seguente informativa: “Dopo attenta analisi e approfondimenti, in base alle segnalazioni ricevute, la decisione era inevitabile. La casa editrice non condivide assolutamente questo modo di operare. Alla “blogger” che ha subito tali vessazioni va il nostro più assoluto sostegno”. Sacrosante parole, sacrosante e qui sottoscritte. Al “Taccuino”, nel frattempo, provano ad arrampicarsi sugli specchi: pare che l’autore di quella risposta fosse sotto “stress” per una recente perdita (condoglianze; ma pensate un po’ se tutti scaricassero proprie sofferenze sui rapporti lavorativi…), ma nello stesso tempo viene accampata la balordissima tesi secondo cui il “recensire un libro senza averne ultimato la lettura è un gesto molto poco professionale”.

Un prospero: è probabile che, su 100 amici del “Giornale del Ticino” che si erano accinti a leggere questo pezzo, 10 si siano fermati al titolo dicendosi che per loro non è tema interessante, 20 si siano irritati dopo due paragrafi, ed altri 20 siano arrivati qui ma di malavoglia; e tra questi 50 (su 100) è anche possibile che uno ci scriva di non essere rimasto coinvolto, e che insomma abbiamo (via: avremmo) sprecato il nostro tempo ed il suo. Pensate un po’: simili informazioni, che in altro àmbito vengono chiamate “feedback”, sono per noi preziose ed utilissime; esse non cambieranno la nostra linea editoriale, ma ci indirizzeranno a raccontare magari in modo diverso, o a scegliere argomenti differenti, o a considerare che vabbè, in fondo una metà dei lettori non si è annoiata. Spiace se, come viene sottolineato, all’autore di tale espressione sono arrivati “messaggi di odio”; peggio è l’arrivare ad affermare che tali messaggi “sono ben peggiori del “post” incriminato”. E per fortuna questi si dicono specializzati “nella promozione professionale per editori, scrittori ed eventi letterari”; gente che all’autrice manda un altro messaggio pubblico parlando di “blog minuscoli che credono di essere la Rai” ed affermando che l’“incipit” del commento (cioè l’aver detto Daisy di non essere riuscita a finire il libro) “disinibisce la voglia di leggere il libro a priori”, frase quest’ultima in cui trovansi un bel motivo di dubbio circa l’uso del verbo “disinibire”, un crasso errore nella costruzione ed un abuso (comune, ma abuso) in lingua latina; in aggiunta, la “blogger” varrebbe all’incirca uno “0.00001 dei nostri contatti” e sarebbe animata da uno “spirito fascista”, trattandosi per meglio dire “del “post” fascista di una “blogger” hobbysta di poco conto (e) che non è nemmeno una giornalista professionista”. La stessa persona cui dall’ufficio-stampa noto come “Il taccuino” inviavano libri – compreso quello incriminato – al fine di ottenere recensioni. Purché fossero favorevoli, neh.

Gabriele Capelli non è, né intende essere, un William Randolph Hearst o un Carl Bertelsmann o un Angelo Rizzoli. Ma è editore serio, non conformista e non allineato. E di certi compagni di viaggio fa a meno. Giusto così. Post scriptum: a tutt’ora, e siamo a metà della serata, il sito InterNet dei taccuinisti è fuori servizio con indicazione unica il “Work in progress”; uhm.