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L’editoriale / «Struggling for life», Rockets come i Charleston Chiefs

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Da teatro dell’assurdo è l’improvvisa pressione calata sulla testa dei giocatori miitanti in maglia BiascaTicino Rockets: i quali andranno in pista, stasera ed in varie altre serate a seguire, per il primo appuntamento nel girone di “play-out” della cadetteria hockeystica. Obbligo morale è il tentare di risalire la china (si parte con i punti accumulati nella fase regolare, e quei punti furono pochi, frutto di un “record” da sette vinte contro 37 perse); sopra la “B” del logo societario resta tuttavia disegnato un punto interrogativo perché, a differenza di quanto avveniva nelle scorse tre stagioni, la salvezza è quest’anno tutt’altro che garantita; e, quel che è peggio, dall’altr’ieri si sa all’esterno quel che sarebbe sempre stato negato anche davanti a specifica richiesta (no, non vi si sta a dire del muro di gomma che sedicenti plenipotenziari hanno opposto per anni ad istanze cronistiche fuori dall’ufficialità o ad ordinarie osservazioni sulla qualità del lavoro svolto da Tizio o da Caio; sarebbe cosa lunga, oltre che tempo sprecato). Sussiste infatti, dalle parti dei Rockets, un problema di sussistenza nel mondo reale: per andare avanti serve o che i soci aderenti al progetto ritrovino un accordo (e dal Lugano, per contro, è stato manifestato un disagio martellante circa la possibilità di dar ancora corso alla “partnership”), o che ai soci non più concordi subentrino soggetti disposti ad assumersi oneri ed onori.

Se tutto questo fosse avvenuto a bocce ferme (e di certo sarebbe avvenuto, prima o poi: qui a bottega non si è propriamente certi della piena trasparenza d’intenti e di azione), e diciamo meglio a salvezza conquistata, beh: per un mesetto si sarebbe andati avanti con toni belligeranti poi accomodanti poi di nuovo irritati poi concilianti et similia, nelle caselle “e-mail” degli stampari non allineati avremmo raccolto il fior fiore delle intimazioni avvocatizie, poi avrebbe parlato Edy Pironaci che anni addietro si mise in mente la coraggiosa e folle idea di offrire al Ticino un terzo polo in area professionistica, poi sarebbe stata trovata o non trovata la quadra; ma, almeno, la polemica sul “Non gioco più e mi porto via il pallone, cicca cicca” – pardon, il disco – ci sarebbe stata risparmiata nel tempo in cui interesse collettivo, ma proprio di tutti e chi non lo capisce è antropologicamente distante dal comprendere il valore di una linea blu, è la permanenza della squadra in Swiss league, Lega nazionale B per i nostalgici come l’Ivan ed il Wilkocks. E qui il sospetto: dal momento che all’Hockey club Lugano non sono digiuni di pubbliche relazioni e di conoscenza della materia, l’uscita a mezzo stampa fu intempestiva ma volutamente piazzata in quel momento. Quasi con strategia da sindacato alla “Ig Metall” in altra epoca: colpire duro ed accusando il minor danno possibile. Tipologia: noi non abbiamo alcuna intenzione di ribaltare il tavolo, e difatti siamo pronti e disposti a contribuire con i soliti quattro giocatori ed accollandoci il gravame del contratto per uno straniero; ma non aspettatevi altro, a meno che siano soddisfatte integralmente le nostre richieste. Quali richieste? Ah, saperlo; già qualcosa che dalla voce di Filippo Lombardi, presidente dell’Hockey club AmbrìPiotta che al “progetto Rockets” compartecipa così come GdT Bellinzona e Davos, si sia appreso che sei erano le tracce e che su tre di esse non vi fu obiezione. Si potrebbe scommettere che fra le altre tre, al momento dell’ultimo incontro tra i soci azionisti o dell’ultimo scambio di “e-mail”, figurassero il “Chi decide” ed il “Chi domanda”, sempre con ancoraggio al principio secondo cui le quote sono da computarsi ma anche da pesarsi. Si potrebbe scommettere, e la si porterebbe a casa. Nulla di quanto indagato, ad oggi, porta una lama di luce sul domani dei BiascaTicino Rockets. I quali potrebbero retrocedere e rimanere in piedi (in terza serie, con altra tipologia programmatica), o potrebbero salvarsi e rimanere in piedi (con questi e con altri soci), o per assurdo potrebbero salvarsi e non rimanere in piedi. “Sindrome da Chiefs”, ecco come potremmo definire questo stato dell’arte: in celluloide, gli immaginari Charlestown Chiefs – franchigia che si batte in una Lega professionistica minore – e capitanati da Paul Newman in “Colpo secco”, ambientazione da città industriale che lentamente ma inesorabilmente frana verso il post-industriale da disoccupazione e lacrime, e gli strepenati Chiefs restano motivo di orgoglio, qualcosa a cui attaccarsi, qualcosa su cui ridere, qualcosa per cui piangere, qualcosa cui restare legati o di cui innamorarsi. Ma tutto è in vendita, per i Chiefs non esiste futuro, qualche giocatore incomincia a far telefonate per sapere se potrà trovare ancora un ingaggio o se gli converrà entrare nell’edilizia con un parente prossimo come socio, e Paul Newman nel ruolo del veterano Reggie Dunlop si inventa allora una verità da far inverare nella reiterazione, ma sì, esiste una cordata che ci vuole, certo, rischiamo di trasferirci in Florida ma rimarremmo con il cuore a Charlestown.

Quel che accadrà resta noto più agli sportivi màiagiàzz che ai cinefili: risalita in classifica con incredibile serie di successi grazie anche all’apporto di tre ragazzotti (i fratelli Jeff, Jack e Steve Hanson) acquisiti da una realtà di serie regionale e sin da sùbito rivelatisi carichi di istinto da “killer” sorridente), conquista del “play-off”, onda dell’entusiasmo, Chiefs in finale per affrontare i rinforzatissimi Syracuse Bulldogs dallo stile di gioco degno di un penitenziario di massima sicurezza, scene da baraccone, ai Chiefs il titolo. E, durante la parata di celebrazione, persino l’annuncio del prodigio: non più a Charlestown, ma nel Minnesota con la maglia dei neocostituiti Minnesota Nighthawks, Reggie Dunlop sarà allenatore e forse non più giocatore, e lì egli porterà quel gruppo capace di infiammare le folle. Ecco: di sicuro Alex Reinhard (che a risultati ha fatto quasi peggio dell’arrogante Jan Cadieux nel biennio precedente) non è Paul Newman e nemmeno il suo personaggio; e nell’organico, montato e smontato a ripetizione durante l’annata sportiva per via dei prestiti in entrata ed in uscita, manca un “enforcer” che con gli atti dimostri il valore dell’attaccamento alla maglia. Si noti: cercasi non un “enforcer” da ghiaccio, ma uno che parli chiaro, in quanto giocatore, e dica a tutto tondo che esiste la volontà di rimanere così, di essere Biasca “e” Ticino, e che unica cosa negoziabile è il risibile “nickname” (risibile perché privo di attinenza, ed ora nemesi di sé medesimo) a suo tempo scelto. In caso contrario, si tratterebbe di adesione e di acquiescenza.

Coraggio, ad ogni modo, BiascaTicino Rockets: a Winterthur, nei primi 60 minuti, si decide mezza stagione; stasera non si può perdere, non si può andare nemmeno al supplementare o ai rigori, non si può far altro che vincere. Senza certezze per il domani, chiaro. Ma incominciate a vincere, e forse qualcosa del resto arriverà.