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Donald Trump versione “tornado”, la Casa Bianca è di nuovo sua

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(ULTIMO AGGIORNAMENTO E RIEPILOGO, ORE 10.03) Donald John Trump di anni 78 e quasi mezzo, da New York, 190 centimetri per 110 chilogrammi, candidato dei Repubblicani, è a tutti gli effetti il 47.o presidente degli Stati Uniti essendo già stato il 45.o ed essendo giunto, nel 2020, a distanza non siderale dal confermarsi quale 46.o. Acquisiti come sono già 267 dei 270 consensi necessari al vincitore (la concorrente Kamala Harris, in quota Democratici, naviga sui 224 e, come se non bastasse, risulta staccata di oltre cinque milioni di voti), questione di ore o di minuti è il timbro sul ritorno del “tycoon” alla Casa Bianca, essendo ancora in corso lo spoglio delle schede e mancando pertanto l’ufficialità in Michigan (margine: più sei per cento), Wisconsin (più quattro), Nevada (più cinque) ed Arizona (più uno); tranne che in Arizona, dove è stato scrutinato poco più della metà dei voti, la quota “trattata” va dal 73 al 90 per cento e, con il linguaggio degli statistici, appare “significativamente rappresentativa”; potrebbe spuntarla anche in Alaska, tra l’altro, Donald Trump, al che di ancor minore rilevanza per la parte avversa sarà il frammento di consenso in arrivo da una residua metà del Nebraska. “Game, set, match”, come ha scritto l’imprenditore Elon Musk in un “post” nel corso della notte; Elon Musk, già, l’altro vincitore della competizione, per avvenuto schieramento dalla parte dell’odierno trionfatore.

Great again – Ma quale probabile ed anzi sicuro “testa-a-testa”; ma quale rischio del “Too close to call” in almeno cinque dei sette Stati “oscillanti”; ma quale durata infinita (“Potrebbero volerci giorni”, questo il mantra circolante) dei conteggi e dei calcoli per l’assegnazione dell’ultimo ed immancabilmente determinante pacchetto di “grandi elettori”. Vi e ci hanno propinato balle a mansalva, per mesi forse, nelle ultime settimane di sicuro, offrendo e mostrando al mondo intero l’immagine di una Kamala Harris sfavillante regina degli “endorsement” ed il volto di Donald Trump da disegnarsi e da farsi percepire come vecchio livoroso e rancoroso, pronto alla pugna solo per cancellare l’onta di non essere stato rieletto, quattr’anni addietro, dietro alla scrivania della “Sala ovale”: tra i due maggiori sfidanti alla presidenza Usa, e diciamo “maggiori” per liquidare in un “amen” le frammentarie posizioni di soggetti alternativi (Jill Stein per il “Green party”, Chase Oliver per i “Libertari”, ad esempio), la notte scorsa c’è stata gara solo sul 3-3, essendo state scrutinate in anticipo le sei schede del microvillaggio noto come Dixville Notch, nel New Hampshire. Volendosi, era anche quello un presagio: la volta scorsa, il democratico Joe Biden aveva maramaldeggiato per 5-0 su Donald Trump. Via via che i colori si stampavano sulla mappa dalla costa dell’Atlantico a quella del Pacifico, davanti agli occhi di tutti si è profilato lo scenario più temuto dai Democratici e più desiderato dai Repubblicani: Kamala Harris a portare a casa il minimo contrattuale e con il vuoto pneumatico dalle zone teoricamente contendibili (unico sussulto: un provvisorio vantaggio in Pennsylvania sino a che era stato scrutinato il 21 per cento delle schede, poi l’Armageddon), Donald Trump – e, con lui, quel James David Vance suo “vice” designato – a contabilizzare un vantaggio crescente. Sigillo della disfatta degli epigoni di Thomas Jefferson è stato l’applauso sùbito morente di un tizio che sul piazzale antistante la “Howard university” in Washington, quartier generale di Kamala Harris, alle ore 7.17 sul fuso di Corippo si è inventato un sussulto di orgoglio per la scontatissima conferma di quattro “grandi elettori” (q-u-a-t-t-r-o: goccia nell’oceano) dal New Hampshire, in ciò trovando un motivo per crederci ancora, crederci sempre, non mollare mai e via di retorica buona per i gonzi; annuncio della sconfitta era stata una mano che nello stesso luogo, 70 minuti prima, aveva staccato audio e video dal maxischermo togliendo di mezzo il collegamento con una “Cnn” da cui continuavano ad arrivare bollettini fra il demoralizzante e l’infausto. Uno tra questi, la maggioranza conquistata dai Repubblicani – e con largo anticipo – al Senato.

Dem, la stolida illusione – Indiscutibile il merito di Donald Trump e della sua squadra nella scelta di pochi ed essenziali temi su cui costruire il quadriennio: impegno a non alimentare i conflitti internazionali, lotta senza quartiere all’immigrazione clandestina, strategie economiche e finanziarie nel cui contesto non ci sono amici ma soltanto “partner”, ed a precise condizioni; nella fase acuta della campagna, poi, in indiretto aiuto sono giunti anche fatti tragici o potenzialmente tragici quali l’attentato subito giovedì 13 luglio a Meridian nella contea di Butler (Pennsylvania) per mano del 20enne Thomas Matthew Crooks, l’attentato subito domenica 15 settembre a West Palm Beach nella contea di Palm Beach (Florida) per mano del 58enne Ryan Wesley Routh e l’attentato sventato sabato 12 ottobre a Coachella nella contea di Riverside (California). Dall’altra parte, una caterva di errori di cui gli strateghi in casa Dem dovranno prima o poi farsi carico: l’aver puntato sulla rielezione di Joe Biden, presidente uscente ma lontanissimo da una condizione psicofisica idonea non dicasi a governare da qui a tutto il 2028, ma nemmeno a reggere il peso di un’intervista senza domande preconcordate; l’essersi affidati ad una figura che, da vicepresidente, non si era distinta nemmeno per la presenza a cerimonie di inaugurazione di centri scolastici; l’aver Kamala Harris imposto un’azione con linguaggio da procuratore pubblico in cifra da telefilm anche su temi non di rado divisivi; l’assenza, dal programma di Kamala Harris, di un messaggio incoraggiante in materia di economia e di occupazione; la carenza di chiarezza su elementi che il cittadino con attitudine al voto vuole conoscere e soppesare (non è un caso se, nell’elettorato di impronta cattolica, il protestante Donald Trump abbia sempre goduto di maggior credito rispetto allo pseudocattolico Joe Biden).