È morto Giovan Luigi Dazio, artefice della “nuova” Fusio e di Mogno

Negli anni della miglior conoscenza diretta, quando sul principiare di via Alla Riva a Minusio c’era un salotto in cui circolavano buona musica a varie ore e cultura e politica bi- e tri-partisan, a Gian Dazio anagraficamente Giovan Luigi – di lui si parla con rammarico ed avvertendo un dolore lancinante, oggi, nel giorno del fresco decesso sulla soglia dei tre quarti di secolo – che era lì non occasionale e sempre graditissimo ospite si disse semplicemente che era un genio e che era un visionario da esportazione. Gian Dazio si schermì: non è il caso, non sono mica come quei germanici che calano in Italia con le mappe dei villaggi abbandonati e che sono capaci di farli rifiorire trasformandoli in isole di vita. Gli si rispose che una differenza c’era: i germanici, nel momento in cui prendevano possesso quasi “manu militari” di una ventina di edifici diroccati e dei 100 ettari di buona terra all’intorno, disponevano di provviste finanziarie dall’ingenza soverchiante, mentre qui i progetti erano sì a respiro profondo se percepiti nel quadro generale, ma per necessità si doveva sempre procedere passo dopo passo, e occhio a non irritare la sensibilità di tizio, e guai a muoversi dichiarando a tutto tondo quale fosse l’obiettivo, e ad ogni modo vi era ogni volta da tenere in considerazione quanto rimaneva in scarsella, parlandosi di quattrini. Gian Dazio, in parole catafratte qual era il suo costume, borbottò e ringraziò.

Architetto, ed inventore di architetture; progettista, ma con una progettualità in cui il rispetto della tradizione fosse rigoroso anche nel suo venir riformulato e riscritto. Se Fusio nel profondo della Lavizzara è oggi una Fusio viva e fascinosa e che il visitatore va ad incontrare con curiosità e con rispetto, se le pietre della ValleMaggia parlano una lingua che affascina, se in diecine e diecine di edifici si manifestano e si evidenziano esiti di interventi dalla coerenza cogente, ciò dobbiamo a Gian Dazio ed alla sua ostinazione, a tratti sconfinante in burberità, nel proporre una totale indisponibilità a negoziare sui principi. Mai rancoroso verso altri esercitanti la sua professione, benché i cani abbondino ed egli sapesse riconoscerli al tratto e prima ancora all’impostazione; mai irrispettoso verso i maestri, benché qualche maestro abbia attinto in sovrabbondanza dal suo lavoro, e non è detto che sempre la riconoscenza ed il riconoscimento siano andati di pari passo e nella giusta direzione. Il capolavoro concettuale e l’espressione della folgore ideale che a Gian Dazio si riconobbe quand’egli era vivente (stiamo anzi sognando di leggere il primo peana “post mortem” dalla firma di qualcuno che ai tempi arricciava il naso: sarà l’occasione per sbugiardare i sepolcri imbiancati, e per conquistare gloria imperitura nel farci altri nemici palesi) è ovviamente Mogno, nel segno della chiesa titolata a san Giovanni Battista in ricostruzione della sede distrutta dalla valanga del 1986 e nel segno dell’ossario che da sé è memoria di un antico flagello e meglio di ogni dipinto e di ogni scultura ci ricorda il “Quod es ego fui, quod sum et tu eris”.

Mario Botta, cui venne affidato l’incarico di costruire un nuovo tempio in luogo del manufatto secentesco travolto dagli elementi, da galantuomo qual è non mancherà di rendere omaggio all’abnegazione di Giovan Luigi Dazio quale suggeritore, consulente, compartecipe e direttore dei lavori, stante anche il ruolo – assunto e mantenuto per lungo tempo – di presidente dell’“Associazione per la ricostruzione della chiesa di Mogno”. Oggidì, figurarsi, quella chiesa è meta nei cartelloni ad ogni angolo della ValleMaggia e nei “dépliant” degli enti turistici; per mettere in campo la ricostruzione, e per di più quel tipo di riedificazione in cui ogni numero sarebbe diventato cifra del preesistente ed ogni pezzo sarebbe stato incastonato a valore intrinseco (“Gian, questo è il decoro senza decorazione”; ci scappò uno tra i rarissimi sorrisi che si videro stampati all’angolo destro della sua bocca), servirono uno sforzo sovrumano e l’attitudine di alcuni ad andare a combattere contro i mulini a vento, tuttavia nei panni e nell’armatura di un don Chisciotte perfettamente lucido e che i mostri aveva riconosciuto. Per Tizio quella di Mogno era una tomba, per Caio essa difettava di sacralità, per Sempronio sarebbe stato semmai da lasciarsi solo un segno, magari una cappelletta e meglio ancora un mero spazio vuoto, e chi ha avuto ha avuto ha avuto e chi ha dato ha dato ha dato. Un giorno, incrociandosi da pedoni sul ponte della Ramogna a saldo tra Muralto e Locarno e scorgendo in Gian Dazio un segno di amarezza, si indagò con discrezione: “Non capiscono, nemmeno guardano i disegni e me ne dicono di ogni, ce ne dicono di ogni”, fu la risposta. Palle cinesi, quelle delle “critiche costruttive”; in Ticino giravano invece cecchini assai ispirati (sì, da terzi), e bastava un nulla per finire colpiti da fuoco amico.

Non si sta dicendo che Gian fosse persona semplice, e forse più difficile di tutto era il rimanere al suo fianco nella quotidianità; al pari di molti uomini d’arte e di spirito, egli si portava il lavoro a casa, nella testa e non solo. A Lisa ed a Sofia in discendenze Dazio e Zenger, entrambe compartecipi dello studio professionale con il padre, il delicato compito di trasformare questo lutto in una testimonianza quotidiana: di quanto fatto nel nome del reale, di quanto è da farsi nel nome della storia. Camera ardente sino alle ore 17.00 di sabato al “Funerario” di Riazzino; indi traslazione a Fusio e presenza nella parrocchiale a partire dalle ore 18.00 di domenica; lunedì, ore 14.30, le esequie; infine, ritorno a Riazzino per l’estremo congedo.