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A margine / Italia, il sacrosanto diritto di imporre un lutto nazionale

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Mormorii striscianti e storcimenti di nasini sensibili, dalle Alpi a Pantelleria e non sarebbero mancati appoggi all’Asmara e ad Addis Abeba se l’Italia fosse riuscita a consaervare le colonie d’Africa, essendo stato dichiarato il lutto nazionale in coincidenza con le odierne esequie di Silvio Berlusconi, già presidente del Consiglio per quattro volte (due in forma consecutiva). Sui funerali di Stato, atto di omaggio nel quale anche le spese ricadono sulla collettività quale tributo alla memoria dell’estinto, nessuno ha potuto obiettare: è un diritto e persino un obbligo (articolo 2 della Legge numero 36 del 7 febbraio 1987, con regolamentazione dettata da una circolare – cioè da un atto amministrativo – del 2002), a men che i familiari dell’estinto pretendano una cerimonia privata. Circa il lutto nazionale, invece, apriti cielo: e non era il caso, ed è una forzatura, e insomma, e io mi rifiuterò di aderire e di far aderire l’ente che dirigo (un rettore di università è l’autore di questa pensata: è roba da tre mesi dietro alle sbarre), sino al deprecabile estremo dell’attribuzione di un pensiero “perplesso” su tale tema nientemeno che ai magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, entrambi trucidati da mani mafiose (maggio 1992 e luglio 1992 rispettivamente). Circola difatti un quadrittico di vignette in cui Paolo Borsellino domanda a Giovanni Falcone: “Ma per te hanno proclamato il lutto nazionale?”. “Ovviamente no”. “Per me, nemmeno”. Conclusione del dialogo: “Abbiamo sbagliato il Paese in cui nascere, probabilmente”. Che è come dire: l’Italia fa schifo, se ad un Silvio Berlusconi dà quel che a noi non ha dato. Sul sottinteso latente si evita di pronunciarsi: non “pro bono pacis”, non perché “De mortuis nihil nisi bonum”, ma perché manca l’“Ubi consistat”; vedasi l’elenco delle azioni giudiziarie cui Silvio Berlusconi fu sottoposto (sempre archiviati – cioè zero séguito – i procedimenti legati a supposte relazioni con ambienti mafiosi; era ancora in piedi un secondo fascicolo per le stragi del 1992 e del 1993, per avvenuta riapertura – nel 2017, e senza sviluppi tangibili sino all’altr’ieri – di un “dossier” già sigillato nel 1998).

Con quel quadrittico in vignetta, bell’e servito sarebbe ed è il sillogismo. Ma basta un rovesciamento dei termini del discorso, a fattori immutati, per dimostrare quanto la tesi sia fuorviante, erronea e, si consenta, anche un po’ stupida. Partiamo da un assunto: in Italia, per i funerali di Stato esiste una normativa, circa il lutto nazionale non esiste una regola ma esistono prassi nel cui alveo è posto un punto fermo. E questo punto fermo è dato dall’attore (unico), cioè dal decisore, cioè dalla persona che, per ruolo istituzionale, ha diritto di proclamare il lutto nazionale, il/la presidente del Consiglio, cioè chi sta a capo dell’Esecutivo in carica. Oggi, Giorgia Meloni. Piaccia o non piaccia; poi, e per carità, chi voglia cambiare tale stato dell’arte non ha che da farsi avanti; c’è la via parlamentare, ci sono anche altri strumenti, sempre che si consideri poi così rilevante il normare un’evenemenzialità fortunatamente rara e fortunatamente sporadica. Decisione criticabile, magari? Boh, proprio con il “forse” dei giorni in cui non s’abbia altro di cui occuparsi. Decisione insindacabile? Oh, questo è invece sicuro come l’oro. Prendendo però spunto dalle vignette, restiamo all’unico tema che in qualche modo si autosorregge: “Perché per Silvio Berlusconi sì e per Giovanni Falcone e per Paolo Borsellino no?”. Si potrebbe comodamente replicare che oltre a Giovanni Falcone ed a Paolo Borsellino l’onore del lutto nazionale sarebbe stato da concedersi a qualcun altro, nella storia della Repubblica italiana; ma questo è discorso che porterebbe lontano.

Diciamo dei due magistrati antimafia, invece, e di ciò che non avvenne. Al tempo della “strage di Capaci”, attentato in cui furono assassinati Giovanni Falcone e la moglie Francesca Morvillo e tre uomini della scorta, presidente del Consiglio era il democristiano Giulio Andreotti con un Esecutivo di Centrosinistra con ampio sbilanciamento a sinistra, per la verità (del Partito liberale italiano era figura apicale Renato Altissimo, esponente per l’appunto della corrente “riformista”: aveva vinto il “Congresso di Genova” nel 1986, in contrapposizione alla linea – decisamente “non riformista” – di Alfredo Biondi e scalzando quest’ultimo dalla segreteria). Al tempo della “strage di via D’Amelio” a Palermo, attentato in cui furono assassinati Paolo Borsellino ed i cinque membri della sua scorta, presidente del Consiglio era il socialista Giuliano Amato con un Esecutivo di Centrosinistra invero espressa come Sinistracentro (stessi soggetti politici, stessi nomi, ma trazione sotto i colori del garofano). A Giulio Andreotti ed a Giuliano Amato sarebbe stato da porsi l’interrogativo: “Perché niente lutto nazionale per Giovanni Falcone, perché niente lutto nazionale per Paolo Borsellino?”, pur essendo ciò nelle prerogative dell’un presidente del Consiglio prima e dell’altro presidente del Consiglio poi. A loro (volendo, Giuliano Amato potrebbe rispondere ancor oggi); a loro, e non a Giorgia Meloni che, venuta a succedere nel ruolo una trentina d’anni più tardi, per Silvio Berlusconi sceglie di proclamare ora il lutto nazionale. Detto di passaggio: sempre con riferimento alle vignette, arbitrario è l’affermare una propria tesi – sino ad oggi priva di riscontro in aula giudiziaria – prendendo le identità di un Giovanni Falcone e di un Paolo Borsellino ridotti al rango di “umarèll” che guardano giù da una nuvola; arbitrario, arrogante, irritante ed irriguardoso è l’attribuire un pensiero di tal genere a Giovanni Falcone ed a Paolo Borsellino, due che agli onori non tennero da vivi e figurarsi da morti (sul pensiero politico personale sia di Giovanni Falcone sia di Paolo Borsellino potremmo poi aprire una lunga parentesi. Di sicuro il primo spiaceva sia a Destra sia a Sinistra, come ha dimostrato il collega Giovanni Bianconi nelle pagine dell'”Assedio”, ed il secondo proveniva dalle file del Fuan, organizzazione giovanile Msi, quindi Destra senza “se” e senza “ma”).

Questo per dovere di cronaca e di rispetto: anche delle prassi che non piacciono. Essendoci poi di mezzo uno che nella vita qualcosa ha fatto, oltre a governare per 3’339 giorni in uno spettro di 17 anni e rotti tra il maggio 1994 ed il novembre 2011, ecco, quanta tristezza, quanta.