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Lugano, puntano i diamanti e tentano il “rip deal”: due italiani al gabbio

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Avevamo sentito di “rip deal” tentati (e, a volte, riusciti) in camere d’albergo. Avevamo sentito di “rip deal” tentati (e, a volte, riusciti) nel “garage” di un’azienda, previo ingresso dalla porta secondaria di un’azienda utilizzata per “accreditare” l’operazione ma all’insaputa dei titolari della medesima. A memoria d’uomo, un “rip deal” da eseguirsi sulla pubblica via a Lugano – sissignori, in strada – non era ancora entrato in linea di conto. E probabilmente rimarrà un “hàpax”, un caso unico, anche perché non andato a buon fine nel senso desiderato dai malviventi: i quali, in questo momento, stanno rimirando la pioggia ottobrina dalla finestruccia di una cella, com’è giusto e come ci si augura che sarà per tanto, tanto, tantissimo tempo.

Vi vendiamo la storia – roba di qualche giorno fa; ne tratta una nota-stampa di fonte ministero pubblico – per come ce l’hanno raccontata, rendendo avantutto merito alla persona che credeva di aver avviato un affare e che invece i malviventi avevano designato come vittima e bersaglio della truffa. Truffa, stavolta, non “al cambio” cioè nella formula secondo cui Tizio porta soldi veri in una certa divisa e Caio, dopo aver promesso condizioni strafavorevoli, paga con qualche banconota autentica sopra una paccata di denaro prodotto con la fotocopiatrice; qui c’era di mezzo una compravendita di diamanti, professionista da una parte e professionisti (sì, ma d’altro genere rispetto a quel ch’era atteso) dall’altra. All’origine del contatto, forse, un’inserzione o un passaparola; non indaghiamo anche per non perdere il filo della questione, che in ultimo si risolve con l’appuntamento sulle rive del Ceresio. L’aspirante venditore dei preziosi giunge con il suo carico, e arrivano anche i… rappresentanti (chiamiamoli così) con valigetta e sguardo professionale, dunque, trattiamo, siamo qui pronti, valuta corrente. Oh, ma lontani da occhi indiscreti, noi non ci fidiamo di nessuno, caro Lei. Sembra la premessa per una cosa seria seria serissima; eppoi, chi non darebbe fiducia a due tizi così decisi e così precisi? Uno appena appena scafato, ad esempio. Perché i fenomeni, probabilmente nell’esigenza di lasciarsi aperte più vie di esfiltrazione con il malloppo ossia dopo aver rifilato la paccottiglia, insistono su un punto: dobbiamo andare in auto a prendere gli attrezzi del mestiere cioè l’apparecchiatura contasoldi per fare più presto, tempo un minuto, facciamo lo scambio qui all’angolo. Guarda, proprio una garanzia; come recita l’informativa ufficiale, il venditore si sarebbe a quel punto reso conto di “trovarsi confrontato con un possibile raggiro”, dal che una chiamata all’autorità di polizia e, ovviamente, la saggia scelta del soggetto di tenersi ben lontano da altri contatti con i criminali.

In Polcantonale, dove per simili vicenduole sono attrezzati anche all’intervento rapido, approntamento del dispositivo di ricerca e tac, i due malfattori cascano nella rete in meno del tempo che serve per la recita d’un Rosario. E magari tenterebbero anche di fare gli gnorri e di dichiararsi estranei a qualsivoglia contestazione, i due delinquenti, se non fosse che dalle perquisizioni personali e da una controllatina all’auto spuntano in serie: a) la famosa macchinetta in cui far passare le banconote per la verifica dell’autenticità; b) un po’ di banconote vere, solita destinazione in cima ed in fondo alle mazzette di denaro buono sì e no per il “Monopoli”; c) un valigione pieno delle summenzionate banconote false. In cotanto contesto, esito inevitabile a ristabilimento della verità e dell’equità, colonna sonora il “clic-clac” delle manette. Ah, per corollario: i truffatori sono risultati cittadini italiani residenti in Italia, 24 anni l’uno, 38 anni l’altro, nessuna precisazione disponibile circa l’origine ed invece tale notizia sarebbe davvero utile anche per mettere sull’avviso eventuali altri venditori che si trovino “agganciati” con le medesime modalità di azione. Addebito mosso: truffa aggravata.