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A margine / “Desaparecidos”, ma non per la storia e non per la speranza

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18 erano ad inizio estate, i “cold case” ufficiali da scomparsa di persone in Ticino; 18 quelli registrati, tutti nel nuovo millennio, tutti con nome e cognome e connotati ed informazioni di contorno sul sito InterNet della Polcantonale. Uno specchio del reale, quell’elenco, da cui nel volgere di 40 giorni sono usciti Franco Colombi da Tenero-Contra frazione Tenero ed Hélène Flury da Losanna, resti mortali ritrovati rispettivamente alle Bolle di Magadino ed a Capolago, tra terra ed acque entrambi; oltre 18 anni per una risposta nel primo caso, oltre 13 mesi nel secondo.

Erano date per chiuse secondo logica, benché mancasse l’elemento della prova provata – il corpo, o ciò che di esso rimane – sia la storia di Franco Colombi sia la storia di Hélène Flury: non vi erano evidenze di soluzioni alternative, non vi erano testimoni di movimenti oltre la data e l’ora dell’ultimo avvistamento secondo informativa pubblicata, non vi era traccia di un contatto né visivo né telefonico né con altri strumenti. E tuttavia, in qualche modo, si era provato a sperare: per l’uomo, chissà, in una partenza volontaria ed alla chetichella – argomentiamo meglio: all’insaputa di tutti – come ad un tempo faceva chi volesse interrompere le relazioni con il mondo conosciuto per andare ad esplorarne un altro; per la donna, mah, basta una discesa a Milano per scoprire universi dell’umanità sommersa e le cui identità sono incerte o persino ignote. Fantasie? Non proprio: per trasformare persone dalla pienissima autosufficienza e dallo spirito vivace in “clochard” basta ed avanza un “black-out” della memoria. I casi si sommano ai casi, ne citeremo uno piuttosto complesso: dall’oggi al domani, nel marzo 2017, sparì una 50enne britannica nata in Iran e che nella metropoli lombarda frequentava luoghi rinomati ed aveva preso alloggio in un “residence” dalla buona fama; irreperibile, svanita, niente tracce, niente messaggi dal cellulare, niente segni di esistenza in vita per comunicazione indiretta come potrebb’essere un prelievo allo sportello automatico o l’uso di una carta di credito; il nulla. Quella stessa donna, sei mesi più tardi e solo perché alle ricerche condotte dalle forze dell’ordine si era aggiunto il contributo di investigatori ingaggiati dai familiari della 50enne, fu trovata per l’appunto tra i frequentatori dei ripari di fortuna, dei cassonetti, dei vicoli dietro ai ristoranti. Aveva vissuto di carità e del qualcosa che riusciva a recuperare dagli scarti di verdura e di frutta, quella donna.

Un po’ in ragione di fatti come questo – nei telefilm raccontano che le probabilità di un rintraccio precipitano dopo 72 ore: vale forse per l’allontanamento volontario di un soggetto, ma non è concetto né statisticamente dimostrato né scientifico – ed un po’ perché l’uomo alimenta in sé un residuo ultimo di speranza, ecco, ogni volta che si getta uno sguardo all’elenco dei “desaparecidos” ci si interroga circa l’eventualità remota, remotissima, quasi impalpabile che almeno una di quelle persone sia ancora viva, magari sotto altro nome, magari perché semplicemente tornata nel Paese di origine o migrata in altra nazione e nemmeno al corrente di figurare in un certo elenco. Certo, non possiamo credere che ciò valga per il lucernese Marko Terzic, che oggi avrebbe 35 anni ma che si teme sia deceduto a meta settembre 2010, quando si inoltrò dalle parti della Val Grande partendo dall’abitato di Gordevio in Comune di Avegno-Gordevio; idem dicasi per un Giusep Casutt, per una Johanna Staehli, per un Michael Eduard Wackernagel, per un Bruno Wespi e per una Geneviève Tomonaga-Ducotterd; ci si vuole ancora credere, tuttavia, per l’eritreo Filmon Tekle (ultimo avvistamento a metà marzo 2021, era dimorante a Bellinzona quartiere Giubiasco) e per la parimenti eritrea Feven Samuel Abrha sulla corretta trascrizione del cui cognome potrebbe anche insorgere un dubbio (ultimo avvistamento nell’agosto 2021, abitava a Bellinzona ma nel giorno della sparizione si trovava a Lugano), il primo aveva con sé un “trolley” e la seconda si portava dietro una borsa capiente, chissà, magari in un altro angolo di mondo entrambi hanno trovato vita migliore.

Quanto agli altri 14, senza illusioni, ma piacerebbe il poter almeno scrivere la parola “fine”, ed avere una lapide davanti alla quale portare un fiore, per cristiana e per laica pietà. Tutto qui.