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O così, o “Modì”: Rudy Chiappini e Pedro Pedrazzini assolti. Dopo sei anni

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Rudy Chiappini, 67 anni, originario di Piacenza in propaggine emiliana che tende al nerbo della scrofa lanuta e cittadino svizzero, per una vita al servizio della cultura ticinese e d’Elvezia (tra l’altro come responsabile dei Servizi culturali della Città di Locarno e quale direttore del “Museo arte moderna” di Lugano), è stato oggi assolto ripetiamo assolto ripetiamo assolto da ogni accusa – qualcuno che scrisse in modo indegno vorrebbe forse non capire, e si rispiega: è stato as-sol-to, sette lettere, participio passato del verbo “assolvere” – al termine del sentiero processuale formatosi attorno ad un evento della primavera 2017 nel cuore di Genova, ovvero la mostra in dedica alle arti pittoriche del livornese Amedeo Clemente “Modì” Modigliani, per molti l’uomo delle “teste” quale scultore ma anche vibrante con un pennello tra le mani. Il verdetto in aula a Genova, Sezione penale II, giudice Massimo Deplano, valutazione di soli fatti e di sole prove su accuse che, sul complesso dei sei imputati, andavano dalla contraffazione alla truffa al falso alla ricettazione. Assolto – sempre sette lettere, sempre participio passato del verbo “assolvere” – anche Pedro Pedrazzini, 70 anni a novembre, cittadino svizzero dato come grigionese per via dell’esser nato a Roveredo ma le cui ascendenze sono note e che vive e lavora a Minusio, scultore i cui bronzi sono in pubblica e vivente testimonianza da Burgdorf ad Unterägeri ad Ascona sino all’interpretazione del senso del transito nel “Viandante” al sacro Passo del San Gottardo, esperienze in “atelier” con Remo Rossi e formazione accademica fra Firenze e Milano. Assolti tutti e due: se furono esposte opere false (ed otto pezzi sono stati considerati “non autentici”. Pas le Diable, pas effroyable, parfois discutable), il fatto asseritamente delittuoso non esiste e/o non costituisce reato.

Liberi tutti, ma per uno non c’è gioia – Ad avvenuta pubblicazione sarà utile l’accesso alle motivazioni della sentenza; ma si capisce d’acchito che corre un oceano tra il un carico di addebiti qual era quello indicato e lo zero virgola zero di condanne. Sei mesi erano stati chiesti per Pedro Pedrazzini, sei mesi; sei anni, addirittura sei anni rischiava invece Rudy Chiappini. A confronto sulla logica, si sappia che in Italia c’è gente che se l’è cavata con tre anni al minimo edittale per una rapina a mano armata. Liberi senza un graffio altri tre: Massimo Vitta Zelman, che ha bevuto editoria d’arte già con il latte del biberon e che è presidente della “MondoMostre Skira” (Paolo D’Ovidio, procuratore aggiunto, almeno su questo potrà dirsi soddisfatto: assoluzione proposta, assoluzione data…); insieme con Massimo Vitta Zelman, anche Nicolò Sponzilli e Rosa Fasan, rispettivamente direttore mostre e “project manager” per la società stessa (otto mesi la richiesta per entrambi). Non potrà invece gioire per la fine dell’incubo lo statunitense Joseph Guttmann: cinque anni rischiava, anche per lui nulla (il ruolo sarebbe stato stralciato per intervenuto decesso, ma gli avvocati difensori hanno chiesto che egualmente fosse pronunciata la sentenza assolutoria); peccato che Joseph Guttmann sia morto lunedì scorso, all’età di 81 anni, con esequie alle ore 13.00 di martedì alla “Riverside memorial chapel” sulla 76.a strada di New York ed inumazione alle ore 15.00 dello stesso giorno al “Beth David cemetery” in Elmont road ad Elmont, contea di Nassau, Stato di New York.

La lunga traversata del deserto – Si chiude auspicabilmente un calvario giudiziario durato per cinque anni sugli oltre sei dalla data della mostra, al tempo organizzata non senza fatica per l’esigenza di giungere a raccogliere ed a fissare in un percorso qualcosa come 59 lavori di varie fasi della produzione modiglianesca. Era un appuntamento imperdibile per specialisti e per appassionati e per profani anche soltanto soggetti al richiamo del grande nome, quello; e la rassegna fu costruita da Rudy Chiappini, quale curatore, in modo da garantire pieno rispetto sia al valore sia al lavoro di “Modì”, in una cornice doppiamente superba qual è l’“Appartamento del Doge” al Palazzo ducale del capoluogo ligure; l’organizzazione ebbe luogo sotto egida della citata “MondoMostre Skira srl” (un’autorità: ad oggi, 222 allestimenti in 73 città per oltre 30 milioni di visitatori attestati) e dei responsabili dell’ente deputato alla preservazione ed alla valorizzazione dell’edificio quale immobile e quale centro culturale. D’improvviso, a porte ancora aperte, scoppiò la polemica sull’autenticità di parte dei materiali; dapprima con un “post” del critico Carlo Pepi, poi con sempre più calde prese di posizione sino ad un’apodittica affermazione secondo cui “rarissime”, tra quelle esposte a Genova, sarebbero state le evidenze di autenticità. Di sé, quesito anche accettabile in quanto genericamente non privo di fondamento, se per “fondamento” si intendono i reiterati e costanti dubbi – guai a non averne – sull’opera di figure del passato che, per così dire, non avevano l’abitudine di fotografare e di cristallizzare in un catalogo ogni proprio schizzo appena ch’esso fosse uscito dalle loro mani; ma l’onda arrivò a travolgere luoghi e persone, tra paragrafi fulminati ed “expertise” strillate, e da un sospetto tarocco messo sotto la lente si passò rapidamente a tre e poi a nove e poi a 13 ed infine a 21 pezzi, questi ultimi posti sotto sequestro nel luglio dello stesso anno; nemmeno in modo velato prese anche forma l’ipotesi secondo cui la mostra a Palazzo Ducale sarebbe stata funzionale a legittimare come veri alcuni quadri falsi o dalla discutibile attribuzione, obiettivo ultimo il poter presentare un “pacchetto” di materiali vendibili a prezzi stratosferici di lì a tre anni, dovendosi infatti celebrare nel 2020 il centenario dalla morte di Amedeo Modigliani. Sentite un po’ il teorema: un “racket” truffaldino che a New York (nel senso del portafoglio finanziatore) avrebbe avuto il cuore, a Lugano (nel senso delle menti dell’operazione, sotto il sembiante dell’onorabilità elvetica) la testa ed i coglioni (nel senso di mercanti stupidi, di pubblico beota e di compratori minchionabili) in varie parti d’Italia.

Dicono, pare, sembra, corre voce – Rivoli di qua sommati a rivoli di là uguale trascendimento (non filosofico) garantito su più piani e su più livelli, dal culturale all’amministrativo al giudiziario. Alle contestazioni si aggiunse il parere di Marc Restellini, francese del Passo di Calais con ascendenze paterne fra Brianza e lande insubri, diuturno studioso circa ogni refolo di vita morte e miracoli di “Modì”, storico e storico dell’arte, nipote di Isaac Antcher pittore francese d’origine moldava, nel “curriculum” anche la direzione della “Pinacoteca di Parigi”; figura ben accreditata e meglio ancora accreditatasi (si dia un’occhiata al sito InterNet personale), e che si schierò con estrema durezza. Rudy Chiappini replicò in conferenza-stampa, affiancato da membri della fondazione e del Comitato scientifico, rivendicando la correttezza del suo operato e facendo notare – la stendiamo breve, ma anche fuori dall’aula giudiziaria il “dossier” pesa tre tomi più le appendici – che le opere sino a quel momento contestate erano state accolte senza riserve in varie altre esposizioni ed in varie altre sedi di primaria rilevanza. Ad esempio, il “Ritratto di Chaim Soutine” messo a disposizione da Pedro Pedrazzini era stato una punta di diamante in eventi a Losanna, a Pisa, a Torino ed a Parigi, e non una voce si era levata almeno a sussurrare tracce di incertezza sull’attribuzione. Andò avanti a colpi di editoriali e di colonname pesante in cronaca, il caso sfociò sul versante penale, e si potrebbe dire che di ogni centimetro quadrato fu tirato un manifesto.
In Ticino, con tesi semplice e ponderata, si espresse per esempio Jean Olaniszyn, che anni prima si era dimesso dagli “Archivi legali di Amedeo Modigliani” sostenendo di aver “denunciato la presenza di vari falsi” in circolazione e che purtroppo le certificazioni su alcuni materiali venivano dalla firma di un “esperto” che era “già stato citato in giudizio per documenti falsi ed opere false”; contestuale e senza mezzi termini fu l’assoluzione “morale” di Rudy Chiappini (per le brevi, a Genova erano state presentate opere “esposte anche in altre mostre e pubblicate nei relativi cataloghi”, fu la precisazione). Sulla dicotomia “Modì/NonModì” parlò anche qualcuno che forse piena competenza non aveva; conseguì una serie di botta-e-risposta in apparenza senza possibile fine; anche a saltarsi i passaggi, val la pena di ricordare che ancora tre mesi or sono fu chiarissimo Vittorio Sgarbi – che critico d’arte è, ed ora svolge anche la funzione di sottosegretario alla Cultura nel Governo italiano, e di lui si ricorda anche la “querelle” sull’autenticità della “Bella principessa” forse leonardesca che nella primavera del 2015 fu esposta a Palazzo civico in Lugano – quando affermò che la pubblica accusa si stava avvalendo di periti inadeguati. Lo disse allora, e l’ha ripetuto oggi, a sentenza pronunciata.

Much ado for nothing, o quasi – Come detto, 21 opere sulle 59 opere esposte a Palazzo Ducale erano state poste sotto vincolo di controllo dell’autorità giudiziaria in ragione del processo; solo su otto regna però, da oggi, il marchio dell’infamia da dubbio di falsità, magari non è Amedeo Modigliani ma Moise Kisling che con il livornese avrebbe lavorato a quattro mani in qualche caso, non andiamo oltre ché si piomba a capofitto nel marasma delle dichiarazioni e dei certificati; si capisca tuttavia che persino Jeanne Modigliani, unica figlia del pittore e scultore, forse non fu precisissima nel disconoscere quel che del babbo non era. Anche gli otto pezzi falsi o verosimilmente falsi – ah: tra questi non figura il menzionato “Ritratto di Chaim Soutine” – torneranno nelle mani dei proprietari, con una sorta di avvertenza a scanso di equivoci. E che sia la pietra tombale, per cortesia. Un morto c’è già stato; e, per quanto i suoi legali abbiano chiesto una piena riabilitazione morale e benché sui “non reati” s’abbia il dovere di far calare l’oblio, in qualche recesso di InterNet troveremo sempre l’espressione “Joseph Guttmann, nato in Ungheria, vissuto in Svizzera ed in Israele, trasferitosi a New York nel 1972, discusso mercante d’arte”, e magari non “scampato da bimbo all’Olocausto, deceduto ad 81 anni quattro giorni prima di sapere d’essere stato assolto”.