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L’editoriale-bonsai / Quelli che vedono razzismo anche nelle “blacklist”

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In sigla fa Ncsc, ed è un’area del Gchq; alle brevi, stiamo parlando del gruppo di sicurezza informatica operante per conto ed in seno al Governo britannico. Un posto di persone istruite, competenti, intelligenti e che, si presume, sono anche capaci di adesione al reale; proprio lì, tuttavia, nelle scorse ore hanno deciso di procedere all’epurazione di due espressioni che proprio dall’informatica si sono introdotte nella vita quotidiana e, anzi, la vita quotidiana hanno permeato. Trattasi, per la precisione, di “black list” e “white list”, che ci confermerete essere concetti comprensibili all’impronta; ma che non vanno più bene, dicono dall’interno della struttura, perché i concetti medesimi stanno in piedi – ripetiamo, questo affermano i vertici Ncsc – solo se si associa il “bianco” a ciò che è “consentito, sicuro e buono” mentre “nero” corrisponde a “vietato, pericoloso e cattivo”. Il che “pone problemi”, affermano, giacché discriminatorio.

Par d’essere tornati ai tempi del dibattito (tutto elvetico) sulla ridenominazione da taluni pretesa circa i “moretti”, cioè i “Mohrenköpfe” che, in nome del “politically correct”, all’interno di varie catene distributive furono ribattezzati in vario modo, dagli anodini “Choco-Köpfli” (“testoline di cioccolato”) ai comici “Schaumküsse” (“baci di schiuma”): c’è chi davvero chi vede razzismo in ogni parola. Post scriptum: Cina ed India, a cifre grosse, fanno il 40 per cento della popolazione mondiale, ed i cittadini di questi due Paesi hanno in comune il considerare odioso un altro colore, in quanto associato alla morte e meglio ancora al lutto. Per info dei pochi che non siano al corrente: quel colore è il bianco. Ed a rigor di maggioranza relativa in blocco consolidato, “bianco” è “male”. Dunque?