Home CRONACA Pareri sciolti / “Coronavirus”, o della “Guerra dei mondi” in tempi nostri

Pareri sciolti / “Coronavirus”, o della “Guerra dei mondi” in tempi nostri

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da Alessandro Berta, Gordevio

Riflessioni varie impone questa crisi data dall’ormai famigerato “Coronavirus” alias “Covid-19”. Riflessioni varie, in nulla sottovalutandosi il problema e per nulla mandandosi di rispetto ai contagiati, agli abitanti dei luoghi posti sotto quarantena in Italia, e tantomeno ai morti. Riflessioni varie, una di fondo, per analogia: non sembra, questa, la trasposizione in epoca contemporanea della “Guerra dei mondi” interpretata in sceneggiato radiofonico da Orson Welles? Un salto all’indietro per quei pochi che non abbiano almeno sentito parlare della vicenda: è il 30 ottobre 1938, in una trasmissione letteraria – su cornice musicale – della Cbs viene calato il riadattamento (per gli Stati Uniti) da un romanzo di fantascienza scritto oltre 40 anni prima dal britannico Herbert George Wells. È la storia di uno sbarco di alieni, storia rappresentata in modo efficace cioè raccontata come si farebbe in una serie di radiogiornali a lanci “flash” ed in edizioni straordinarie secondo l’evolversi della situazione. Del fatto che trattasi di una “fiction” radiofonica, come si direbbe oggi, gli ascoltatori vengono avvertiti prima della trasmissione ed ancora nel corso della stessa; ma non manca chi creda egualmente che sia in corso l’invasione degli extraterrestri, e da voce in voce si genera un vero e proprio fenomeno di isteria collettiva (l’evidenza rimane attestata, pur dovendosi ridimensionare di molto l’entità del fenomeno rispetto alle proporzioni in cui esso verrà rappresentato dalla stessa Cbs – per motivi autopromozionali – e sulla stampa dell’epoca).

Si riporterà, negli anni a venire, che questo è un caso di “scherzo non voluto”; utili indagini smonteranno gran parte dei racconti (priva di riscontro, nel senso che i numeri rientrano in statistica ordinaria, la tesi secondo cui vi fu un’impennata dei casi di suicidio). Vero è che quel radiodramma ebbe impatto su un buon due per cento della popolazione degli Stati Uniti, realtà all’epoca caratterizzata da profondi solchi (discriminazione bianchi-neri, divario sociale tra città e periferia, distanza culturale tra città e realtà rurali); e la radio era strumento di comunicazione in piena ascesa, passata com’era dalle sperimentazioni di Lee de Forest (con l’emittente 2xG) nell’estate 1915 alla prima stazione – la Kdka – da Pittsburgh in Pennsylvania nel 1920, e tumultuosamente verso la ramificazione (1926, nascita della Nbc, prima rete “nazionale”; 1928, il raggruppamento delle 16 emittenti che diventano nocciolo della futura Cbs). Di più: la radio stava incominciando a costruirsi un ruolo quale strumento di rapporto autorevolmente paritario tra chi stava dietro al microfono e chi ascoltava, e non a caso essa veniva utilizzata anche da un presidente degli Stati Uniti quale fu Franklin Delano Roosevelt, con le “Fireside chat” (“Chiacchiere accanto al camino”) che all’inquilino della Casa Bianca permettevano di cortocircuitare il sistema della stampa quotidiana e periodica, in forte prevalenza schierato su posizioni critiche; di fatto, si stava formando una doppia equazione, radio uguale strumento ludico ma anche radio uguale simbolo di identità collettiva.

Credibilità del mezzo, dunque, come primo fattore. E poi? E poi: erano anni di forte incertezza economica, un primo balzo dopo la “Grande depressione” del 1929 era stato vanificato dalla recessione innescata nel 1937 da uno stolido intervento restrittivo in materia di politiche monetarie e fiscali, sicché il tasso di disoccupazione risalì d’improvviso al 19 per cento quand’invece, nel quadriennio precedente, esso era sceso dal 25 al 14 per cento; in pratica, si stava peggio di prima. Ancora, in vari strati della popolazione era percepibile la preoccupazione per l’ascesa del nazismo. Presto viste le analogie tra il caso della “Guerra dei mondi” e quello che ci sta coinvolgendo ben sopra le righe, e si parla dunque del “Coronavirus”. Che cosa abbiamo sul tappeto? Primo: i “social media” puntano oggi a sostituire la tv che per impatto ha soppiantato la radio quale mezzo di intrattenimento. Tra un “like”, un giochino stupidotto e lo sguardo di sghimbescio ad un titolo (al titolo, spesso non alla piattaforma su cui esso si trova, pur correndo una discreta differenza fra un quotidiano fatto da professionisti ed un “Lercio.it” che è sito dedicato alla satira), molti si “informano” solo in questo modo, magari cascando sulla notizia – che verrà letta in modo superficiale – per la presenza di una foto; quel “link”, tuttavia, essi propagheranno con la condivisione, invitando di fatto altri ad appropriarsi una conoscenza che della conoscenza reale è antitesi. Sul fenomeno agisce poi la mano della tecnica: il “muro sociale” del singolo utente è infatti calibrato da un algoritmo che dell’utente stesso studia il profilo, ad esempio (ma non solo) basandosi sulle ricerche effettuate via InterNet. In sostanza, l’utente vedrà sempre notizie, riflessioni, titoli e soprattutto pubblicità – vuoi in modalità classica, vuoi in forma dialogica – inerenti alle sue preferenze; non esiste mai un contraddittorio, e pertanto ogni messaggio confluisce nell’alveo del rafforzamento di quel che si pensa e si crede. Di più ancora: a qualunque ora del giorno e della notte (senza tempo e senza spazio, anzi), l’utente si troverà ad aprire InterNet ed a leggere solo di persone che la pensano come lui, in una sorta di circolo continuo di notizie rafforzative del pensiero e della visione del mondo che l’utente ha.

Ebbene: quel che Franklin Delano Roosevelt fece con le 30 “Fireside chat” fra il marzo 1933 ed il giugno 1944 (30 discorsi nell’arco di 11 anni…) rivolgendosi ai cittadini, oggi la politica fa in ogni istante, per tramite delle piattaforme mediali, rivolgendosi non al cittadino ma all’elettore acquisito oppure potenziale, mescolando pubblico e privato, facendo scivolare la comunicazione politica nel mezzo dell’informazione istituzionale, aggiungendo una foto di famiglia al filmatino sull’incontro con l’avversario di giornata. Emblematico è del resto l’uso dei “social” da parte di un successore di Franklin Delano Roosevelt, cioè Donald Trump, cui basta un “tweet” di pochi caratteri per andare in prima pagina e per scatenare orde di interpreti a colonnaggio misto (“Che cosa avrà voluto dire in realtà?”, “Perché ha usato quella parola e non un’altra?”, “A chi è diretto il messaggio?”, eccetera). Vi è infine da tenersi conto della situazione contestuale. Non viviamo la crisi del 1929 e nemmeno quella del 1937 e non siamo direttamente in stato di guerra e non ci troviamo ad affrontare la “Peste di Giustiniano” che viene considerata quale prima pandemia nella storia dell’Occidente; difficile sarebbe tuttavia il collocare questo periodo storico fra i più felici (disoccupazione, bassa natalità, “dumping” salariale, guerre commerciali, guerre tra poveri, conflitti a distanza d’un lancio di missile, e così via; ciascuno scelga la sua croce. Siamo bombardati da notizie, siamo tutti di fretta, il tempo per approfondire e la voglia di approfondire scarseggiano anche perché al prossimo “click” rimbalzeremo invariabilmente su un altro articolo per il quale si impone l’apertura di un video dal quale si riceve la raccomandazione a transitare su una terza notizia, vortice infinito, pozzo senza fondo, “tunnel” senza via di uscita. Leggiamo con scarsa attenzione, poco, male; e nel frattempo lasciamo praterie aperte al panico che corre e dilaga via InterNet, laddove tanti si laureano oggi nell’una e domani nell’altra materia, e guai se sulle cause e sul trattamento del “Coronavirus” non li ascolta con attenzione pari a quella che s’ha da prestare ad un virologo di fama mondiale.

Quasi di che dirsi: ah, bei tempi quelli in cui le notizie arrivavano a mezzogiorno e mezzo con il pranzo ed alla sera con il tiggì… Evoluzione, dunque, o involuzione della società? E, soprattutto: davvero al “Coronavirus” è da attribuirsi la patente di “male assoluto” nell’anno 2020? O, e piuttosto, dobbiamo solo appellarci al buonsenso dei singoli, quasi che serva un’epidemia su scala mondiale per far ricordare che non si starnuta in faccia alla gente, e che ci si lava le mani quando ciò è possibile, e comportamento sociale non è di sicuro l’accaparramento di disinfettanti e mascherine (foto ManBer-“Giornale del Ticino”) e 10 chili di pasta, benché l’abbia detto “il Féisbuk”?