Del già “Macello” tra viale Cassarate e via Antonio Fusoni a Lugano, come si sa, da tempo rimangono ruderi e la parte protetta per vincolo culturale; degli ex-macellari alias ex-molinari restano sporadiche e risibili occupazioni temporanee di altrui luoghi, l’imbambolamento di qualcuno che pensi d’essere “alternativo” e “rivoluzionario” nel momento in cui s’imbeve di aggettivi reboanti, fantasie ideali di sostegno a criminali (fa fede il caso dell’italiano Alfredo Cospito, sedicente anarchico e conclamato terrorista) e chiacchiere. Ma anche una pervicace resistenza a difendere il nulla, cioè a cercare risposte su argomenti dall’interesse impalpabile: come nel caso della demolizione dell’ex-Macello stesso, fatto circa il quale è stato accolto nelle scorse ore il reclamo – si ricordi: sono trascorsi due anni ed un mese dalla demolizione – interposto contro il decreto di abbandono formulato nel dicembre 2021 dal procuratore generale Andrea Pagani, che era stato chiamato a valutare se sussistessero ipotesi di reato quali l’abuso di autorità (ex-articolo 312 del Codice penale), la violazione intenzionale – in subordine, violazione colposa – delle regole dell’arte edilizia (ex-articolo 229 del Codice penale), l’infrazione alla Legge federale sulla protezione dell’ambiente (ex-articolo 60 della normativa specifica) ed il danneggiamento (ex-articolo 144 capoverso 1 del Codice penale).
Tutto avviene nella legittimità, s’intenda: decreto impugnato, azione proposta da un rappresentante dell’accusatrice privata, sede preposta la Corte dei reclami penali. E non è che qui sia accaduto chissà che cosa; molto semplicente è stato deciso un rinvio degli atti al ministero pubblico, cui spetterà l’onere di chiarire meglio “i fatti – citiamo – hanno avuto come conseguenza la suddetta demolizione immobiliare”. Passo successivo: il ministero pubblico si occuperà di esperire gli approfondimenti probatori, e ciò “secondo le indicazioni dell’istanza superiore”. Prossima tappa, dunque, la costruzione di un piano istruttorio “da definirsi” al fine di “garantire il diritto al contradittorio delle parti”. E che contraddittorio sia; per fortuna, davanti al magistrato, l’ideologia non dà né pane né companatico.