Ci sono le ideologie, e c’è la realtà. La quale, pur in un mondo largamente imperfetto, alle ideologie risponde e sa rispondere con argomenti migliori per qualità e per coerenza e per densità; anche a Locarno, àmbito celluloide, contesto piazza Grande, buio fuori sala, occhio sul maxischermo. Ciò non toglie che la pressione del “necessario ideologico” – sempre in tesi unilaterale, ché questo è il substrato del “necessario ideologico” – spunti da ogni dove: un giorno sull’ambientalismo, un altro giorno sulle questioni di genere, un altro giorno ancora sulla sostenibilità, un altro giorno ancora sulla distribuzione della ricchezza. E sempre sulla politica, sullo schierarsi politicamente, sul dichiarare – no: costoro non “dichiarano” mai; essi suggeriscono, essi lanciano messaggi, essi adombrano, essi alludono, essi infine simboleggiano – un’appartenenza, e sul pretendere che si aderisca incondizionatamente. Per sollecitato entusiasmo, o alla peggio per vaga condiscendenza, o alla peggio del peggio per mera stanchezza: non importa, fa tutto massa acritica.
Caso ultimo in cronaca, quel che vedremo affisso da qui ad agosto in funzione del “Festival internazionale del film” (noi passatisti nel richiamare questa espressione? No: voi prostrati ai dittatori dell’omologazione, “Locarno76” come “Venezia79” quand’invece quella dell’… altro Lido è e resta la “Mostra internazionale d’arte cinematografica”, parlatene con gli indigeni e sentirete). Informazione fresca di ieri: scelto il vincitore, nientemeno che “all’unanimità”, viene precisato, tra oltre 1’000 lavori pervenuti, e vien da dire che questa non è una buona notizia per gli “oltre 1’000 meno uno” partecipanti se nemmeno un’opera – una di numero – ha goduto di almeno temporanea preferenza da almeno una fra le persone chiamate a valutare. Premiata, dicono da Loc (se voi usate “Locarno76” per fare i moderni, noi diciamo che facciamo Belli-Loc e ritorno in treno solo per fare i giovanilisti, occhèi?), l’introduzione di una figura femminile che sembra fondersi con il “tradizionale leopardo”; dettosi del non esservi nel pardo proprio nulla che pertenga alla “tradizionalità”, nel pardo, non c’è proprio nulla, tanto che prima di esso s’ebbero il premio e il gran premio e persino la “Vela d’oro” a cavallo fra Anni ’50 ed Anni ’60, l’aver aggiunto un altro soggetto nel manifesto è forse un elemento di rottura, di sicuro un elemento incongruo. Il quale non c’entra, semplicemente non c’entra in termini concettuali: potevano inserire un “robot”, o una piramide, e l’esito sarebbe stato eguale ed anzi più rispettoso della dignità del pardo che, nell’immagine proposta, anziché “trasformarsi” – trasformarsi “in qualunque persona ed in qualunque cosa, anche in una creatura, come un grande attore”, secondo la tesi di Ciaren e Sarah Diante autori del manifesto – dà l’idea di essere presenza secondaria rispetto all’“altro da sé”, tale è la preminenza della testa muliebre nel riquadro. Qui il pardo è soggiacente e guarda nel vuoto; l’altro soggetto è sovrastante – quasi che il felide sia ridotto a ruolo subalterno, quasi al rango di gatto domestico – e guarda verso l’obiettivo, guarda verso lo spettatore, guarda in camera. Non è evoluzione, è sostituzione. Sull’androginismo del soggetto dominante, in tipologia al/alla Rain Dove Dubilewski modello/a che si descrive come non conforme al genere oltre che titolare di diritti inalienabili in materia di moda sovversiva, potremmo aprire altra e lunga parentesi: ci si stupisce della pretesa di originalità, ma è un po’ la tesi declinabile anche per il Sanremo ultimo scorso, dove Manuel Franco Rocati alias “Rosa Chemical” tentò di spacciarsi come alfiere della trasgressione quando nel contesto musicale di Tricoloria s’ebbero un Ivan Cattaneo ed un Alberto Camerini ed un Renato Fiacchini alias Renato Zero – ed almeno quelli sapevano e sanno cantare -, non volendosi raccontare di quanti sono ormai scivolati nel ruolo della macchietta o della parodia di sé medesimi.
Fino a qui, l’essenziale sull’immagine. La quale, con intervento a piedi uniti sulle zampe del pardo, rischia di far passare in second’ordine l’errore ideologico autorizzato premiandosi l’“estrema libertà di un nuovo colore, il blu, che va ad arricchire la tavolozza gialla e nera del “festival”, et cetera”. Uh, interessante; interessante ma contraddetto dalla storia, perché il colore blu fu a lungo presente sui manifesti (edizioni numero 14, 19, 22, 26, 27 e 28 in citazione senza pretesa di esaurienza), ed in un certo periodo anche dominante, e per qualche tempo anche unico colore, considerandosi tecnicamente il bianco e il nero quali sfumature; ergo, novità cromatica pari a zero. Eppure il blu irrompe, stavolta, con apparente entusiasmo nella giuria; per decisione unanime, lo si è già detto, vero?, ma ecco un’altra stranezza: a fine ottobre, e l’intervista è ancora pubblicata sul sito InterNet del “Festival”, vi fu chi affermò che “dal leopardo, dal giallo e dal nero non si scappa”, che “puoi portarlo all’estremo, ma quello è”, e che l’ancoraggio a questi tre elementi può anche comportare una “frustrazione da ripetizione, ma per chi fa questo mestiere poi si accende la curiosità di trovare qualcosa che non è mai stato fatto prima” (esempio: in luogo del leopardo come figura fisica, inserire nel manifesto i volti “leopardati” delle persone, anni 2015 e 2016); e che, in ultimo, dal pardo ci si poteva anche allontanare, “ma restando lì”. Eppure: pardo schiacciato dal viso androgino, giallo che soffre per la giustapposizione del blu; ma si era detto della centralità identitaria del pardo, centralità non negoziabile, e del colore giallo e della sfumatura nera, centralità non superabili. Si era detto, meglio: ipse dixit. Tra virgolette, infatti, sono dichiarazioni di Michele Jannuzzi, autore dei manifesti dal 2006 al 2019 più quello non affisso – causa pandemia – del 2020, E Michele Jannuzzi è ora membro della giuria di valutazione dei progetti: dopo quanto detto ed affermato, anch’egli in consenso unanime su un progetto che ignora i fondamentali?
Il cerchio, ad ogni modo, in ultimo ha da chiudersi. E sarà un caso, ma guarda quando si dicono le coincidenze: il pardo giallo passa al giallo e blu come una certa bandiera cui si pretende che sia prestata fedeltà da parte dei cittadini dell’Occidente intiero, compresi quelli di una nazione storicamente neutrale per sua natura – l’essere neutrali è base per poter offrire i servigi propri della mediazione in un conflitto, locale o epocale che esso sia – ma in tempi ultimi svenduta alla peggior concezione possibile dell’atlantismo. Del resto, nell’intervista uscita ieri di bel nuovo sulle pagine InterNet del “Festival”, Ciaren Diante è apodittico: “Sapevamo che inserire il blu era un rischio, ma confidavamo anche (nel fatto) che i giudici sarebbero stati coraggiosi come noi (…), e fortunatamente lo sono stati davvero”. Caspita, quanta “allure”, quanto sovrana percezione di superiorità culturale. Messaggio pro-Ucraina compreso, e aggratisse, in partenza da Londra direzione Locarno. Corollario sottinteso: take it, and shut up.