Il massimo della pena per lui, quasi il massimo della pena per lei. Ma nemmeno i 15 anni ed i 13 inflitti oggi in sede di Assise criminali a Lugano, e sono condanne che per proporzione rasentano l’omicidio intenzionale sconfinante nell’assassinio, basteranno per colmare l’orrore dei delitti di cui quella coppia – coppia ufficiale, coppia sposata; non una temporanea associazione tra due sbandati – si è resa responsabile, abusando per anni dei figli ed in pervicace convinzione della liceità di tali azioni e dell’impunità per tali azioni. “Abusi sessuali” e quanto di contorno, non esclusa la violenza carnale nel caso dell’uomo: a questo ci si autolimita anche nel diritto e nel dovere di cronaca, tale è l’abisso di disumanità raccontato in aula e sulla scorta di indagini nelle quali gli stessi inquirenti avranno dubitato, a tratti, di poter credere a quel che via via si stava disegnando sotto i loro occhi.
Per brevità di percorso, ed omettendo quanto per altri ha formato motivo di titolo (a pregiudizio della serenità che le vittime dovranno riconquistarsi lottando con le unghie? Si direbbe, eccome), nel percorso dalla pubertà all’adolescenza i due figli furono usati come oggetti sessuali, in tutto e per tutto. Avvenne in località nota – e che non si riferirà – del Bellinzonese; avvenne dal 2002 al 2015, dal che deriva che la condanna grava in misura di circa un anno per ogni anno di vessazione. Alla donna, per la quale Marisa Alfier procuratrice pubblica aveva chiesto una condanna più severa (14 anni e sei mesi), è stata riconosciuta una vaga parvenza di pentimento. O, in modo indiretto, nel concedersi uno sconto – irrilevante – è stata attestata l’abominevole sudditanza alle voglie del consorte. Per la logica, e per la sensazione avuta, questa sarebbe semmai stata un’aggravante.
I ragazzi, per parte loro, avranno una sola certezza: quella di essere al riparo dagli aguzzini. Per ricominciare, purtroppo, ciò non basta.