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A margine / Macché Fantomas, il galoppino è Stanislao Moulinsky

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Passino gli anni, cambino le generazioni, mutino d’accento e di pensier il corpo elettorale; s’abbiano in Governo millanta millantati liberali o dominanti dominati conservatori o donne di potere o uomini di dovere; sia denso l’emiciclo di furenti suffragette dal pugno sempre chiuso e di pacati seviziatori dei cruciverba sull’ultima pagina della “Regione”; ebbene, tutto questo accada subentrando l’un fatto all’altro, ma qualcosa rimarrà immutato perché immutabile, ed immutabile giacché immarcescibile, ed immarcescibile in ragione del suo essere innaturalmente connaturato con l’evento, sua parte estranea e nel contempo integrante, un po’ come la borsa per la spesa (non fa parte della spesa, ma senza la borsa non porti a casa la spesa, ecco). Qualcosa, e meglio: qualcuno. Qualcuno: il Fantomas involantesi con il consenso elettorale rapito e fatto prigioniero grazie alla connivenza del rapito, l’Arsenio Lupin che ti sfila il consenso muovendo con passo di danza verso l’uscita, il Diabolik che indossa una tuta da sci e si lancia sulle piste delle schede elettorali slalomeggiando tra crocetta e crocetta, qui richiamare e qui lasciar scorrere le lame, qui appoggiare e qui saltare quasi si fosse sulla Mausefalle della leggendaria “Streif” a Kitzbühel. Insomma, lui: il galoppino.

A battaglia ormai volgente sul termine (domenica 7 aprile, ti preghiamo, vieni già domani e liberaci dalle pastoie) e rimanendo essa loffietta alquanto, se non fosse per il ribollire di umori tra gli udicini e per le scaramucce su un vagamente ipotizzato secondo seggio liberal-radicale a danno dei socialisti – tsé – e per qualche campagna che il presidente dell’associazione tale fa pagare in parte ai suoi associati nulla sapendo questi ultimi, datasi la premessa sull’inesauribilità materiale del galoppino ci stava quasi meravigliando della mancanza di una notizia, di un sussurro, di un refolo o almeno d’un sommesso chiacchiericcio. Ma come?, domandava l’un cronista all’altro, andando a caccia d’un mutuo soccorso a supplemento di informazione carente; ma come?, replicava l’altro cronista all’uno, assumendo un’aria da intenditore e fingendosi stupito e disarmato, ed anche questa è arte della dissimulazione sotto il sembiante dell’“Io so che tu sai che io so”, perché in témp da guèra püssée bàll che tèra ed allora ogni buon giornalista spera di aver tenuto due colpi buoni nella cartuccera. E sapete come vanno a volte le cose: a furia di invocarne l’immagine, a furia di richiamarne lo spirito, il galoppino ha ceduto alle lusinghe ed è riapparso. L’ha detto Germano Mattei, granconsigliere uscente per “MontagnaViva”, l’uomo che sul far della sera puoi incontrare sul 315 da Locarno verso Cavergno e che fors’anche dialoga con le anime del passato in landa valmaggese, su su fino agli antichi insediamenti di Moghegno e di Aurigeno; e chi può dubitare di Germano Mattei, immedesimatosi per gemmazione in un Matteo Pronzini nell’informare la lodevole magistratura cantonale circa almeno un episodio che sarebbe occorso, e circa il quale egli può rendere spontanea e documentata testimonianza, sia pure “de relato” anziché “de visu”?

Il caso, come si evince grazie ai colleghi della “Regione” che dell’esposto di Germano Mattei hanno reso puntuale attestazione, sarebbe dato dalla disponibilità temporanea di schede altrui nelle mani di persona che a quelle schede non aveva diritto di accedere; messa così, la gabola è gabola senza mezzi termini. Ma esiste anche una versione seconda circa i fatti, e la versione seconda recita tutt’altra litania: ma quale frode elettorale, ma quale incetta di voti, ho fatto solo un favore portando la busta elettorale integra da luogo a luogo, su richiesta esplicita di chi tale busta aveva ricevuto a domicilio e doveva far pervenire all’anziana madre ospite temporanea di un istituto; nel venire allo scoperto, tra l’altro, l’accusato esprime un cicinino di risentimento, guarda un po’ quel che succede quando fai un’opera di bene. Armando Dadò, perché di lui si tratta ed a scriverlo sono stati quelli del CdT, non le manda a dire nemmeno se da piazza Grande prova a passare un Roman Polanski regista; figurarsi quante ne avrà da ridondare in faccia a Germano Mattei solo che lo colga dalle parti di piazza Castello a Locarno, ora ch’egli trovasi potenziale indagato (l’incarto del procuratore generale aggiunto Nicola Respini è aperto, sì, ma per il momento contro ignoti) per un’accusa che boh, è strana, fa strano, siamo abituati a pensare al galoppino come al gregario dei gregari che trama nell’ombra ed invece Armando Dadò avrebbe agito persino in presenza di un testimone terzo, e quel testimone terzo è… un figlio di Germano Mattei.

Diremo: viene da ghignare sino a che il bomborino cada sul pavimento alla scenetta in cui un Armando Dadò si metterebbe a sfruculiare nelle schede altrui per infilare crocette malandrine a favore delle parrocchie pipidine. Viene anche da sorridere se si pensa all’entità del progetto criminoso che un grifagno Armando Dadò avrebbe posto in essere, passando con il favore delle tenebre da Someo a Riveo o da Visletto a Brontallo (nemmen si racconta circa Broglio, il paese ideale per simile delitto) al fine di trafficare consensi, qui un uscio del grotto abbandonato che si apre e sotto gli alari del camino troverai il tesoro di due preferenziali della nonna, là smuovi invede una pietra dell’antico lavatoio ed ai tuoi occhi balzerà il bottino d’una scheda secca del prozio; ad una, forse due buste si riduce invece la gravità attestata nell’informativa resa da Germano Mattei. Viene infine da dire che, insomma, il galoppino continua ad esistere ed a resistere come il soldato giapponese rimasto in presidio su qualche isola del Pacifico; più che Fantomas o Arsenio Lupin o Diabolik, però, è uno Stanislao Moulinsky da disegni animati. Ed un poveretto, ahilui, un poveretto.