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Festival e dintorni / Dies Iran, il “Pardo d’oro” che irriterà Teheran

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Essendo questo un mondo di pazzi cioè di gente che cerca ogni possibile pretesto per aggrottare le ciglia e per esprimere irritazione con stizze che manco un infante cui abbiano fatto cadere il biberon, aspettatevi che lunedì qualche dignitario di Teheran o d’una sua ambasciata fulmini giudizi sprezzanti sul “Festival internazionale del film” di Locarno – come detto e ribadito, noi restiamo alla dizione storica rivendicando l’internazionalità: altri facciano pure gli anglofoni – dalla cui giuria, oggi, uscì il “Pardo d’oro” per “Mantagheye bohrani” diretto da Ali Ahmadzadeh. Andandosi per esegesi, sappiamo che “Ahmadzadeh” vuol dire “figlio di Ahmad”, e che “Ahmad” sta per “altamente lodato”; sia lode al padre (per la lode al Padre saremo puntuali alla celebrazione eucaristica di domani, certo) e sia grande lode al figlio, avendo codesto regista-sceneggiatore-produttore fatto un decentissimo lavoro; il titolo sta, grosso modo, per “Zona critica”, ma un significato più esteso vi sarà offerto di sicuro da qualche amico scienziato. La “zona critica” dell’amico Ali che sulle labbra degli spettatori è diventato un “Ammazzadeh” da incrocio espressivo romano-livornese (il “copyright” spetta al collega Tafo) è una storia che si dipana nella Teheran non propriamente ufficiale, e le riprese – così ci viene raccontato, doveroso da parte nostra il dare credito – hanno avuto luogo sotto traccia, cioè in assenza di autorizzazione da parte delle autorità, cioè brutalmente di nascosto; cosa che ai piani alti del governo iraniano, diciamo, potrebbero anche considerare poco commendevole. Quel che Ali Ahmadzadeh fa per mestiere scelto, anzi, è di sicuro poco gradito: non sarà sul palco per ricevere il premio, stasera, perché dal suo Paese non è potuto uscire. Giusto per stare alla questione di fondo dei livelli minimi di libertà, “Leitmotiv” quest’anno ribadito ma del quale taluno ha abusato, e pubblicamente.

Un bel caso volle che per chiudere l’edizione numero 76 dell’evento locarnese, ultimo del regno solariano e vigilia dell’era della Feconda Speranza, in piazza Grande fosse stato messo a programma il film “Shayda” che vinse l’ultimo “Sundance” nello Utah e che di Iran – realtà da 10 volte la popolazione svizzera e 40 volte la superficie della Confederazione – parla in funzione di disperate lotte per quei diritti civili che a casa nostra, vivaddio, sono pane quotidiano mentre là, sotto il velo del concetto di “repubblica” che è da tradursi come dittatura islamica teocratica, essi rientrano nella sfera dell’utopia sottoposta a repressione. Uno più uno, a volte, fa tre ed ecco confezionato il “Dies Iran”, tra l’altro nell’imperfetto solco del volgersi il “festival” sempre verso lidi atipici; vi è sempre il rischio di stroppiare, e l’elenco dei premiati dà un po’ questa impressione, ma passi, è poi e pur sempre cinema; e almeno è una linea di condotta, intellettualistica come poche altre ma pur sempre una linea. Vedremo se nel domani, cioè sotto la presidenza di Maja Hoffmann pronta al subentro (formale nomina il mese prossimo) a Marco Solari che si è congedato dopo 23 anni, si tornerà a parlare di più indirizzi, ché di sicuro la futura presidente non viene per fare passerella e basta.
Fossimo in Giona Antonio Nazzaro direttore artistico, nel frattempo, sulla rilettura generale dell’evento caleremmo i toni d’un paio di dita almeno. Mettiamola così: è affatto privo di eleganza il sostenere che questa sarebbe stata “un’edizione entusiasmante”; per chi, Ken Loach ospite a parte? Per le varie assenze – ah, già, c’è di mezzo lo sciopero degli attori ad Hollywood. Sorry, ma si rispettano gli impegni assunti – di personaggi annunciati e che “fanno” l’evento? Per il fuoriprogramma degli ecopirla arrivati sino al palco e cui venne data la parola (avremmo voluto vedere se si fosse trattato di qualche esponente di un movimento “Pro life”, giusto per stare sul divisivo)? Per la mediocre qualità generale del prodotto (si sa, usciamo dal periodo pandemico e i motori non sono ancora a regime in ogni luogo… Ma di cose originali e travolgenti, ecco, nemmeno un sussurro). E mettiamola anche cosà: è affatto prio di eleganza l’affermare che sarebbe stata “ribadita la centralità” del “festival” locarnese; “centralità” rispetto a che cosa, scusi, direttore? Ha presente quanti e quali proposte si siano aggiunte, negli ultimi tempi? Ha idea di quanti, nel complesso dell’offerta (presenze, partecipanti, ospiti, giuria, materiali “in sé”), si siano nel frattempo affrettati ad infilarsi nella corsia di sorpasso? E mettiamola anche come: il “festival” locarnese, sempre a detta del direttore artistico (sottolineasi l’aggettivo “artistico”; allora, perché Giona Antonio Nazzaro entra a ripetizione in campi non di sua competenza?), avrebbe il pregio di essere “capace di esplorare il cinema contemporaneo in tutte le sue forme”; sarebbe come dire, con metafora sportiva, che nel “playbook” di un allenatore di basket figurano tutti ma proprio tutti i possibili schemi d’attacco e di difesa; come minimo, di che ingenerare confusione nei giocatori avversari, e di che stordire i propri.

Ma via, è andata e quando le cose vanno ci si toglie anche un peso dal cuore, dovendosi ammettere che dopo la botta pandemica e percependosi qualche chiaro di luna poteva anche sussistere un dubbio sulle capacità di ripresa dell’appuntamento locarnese. L’interrogativo a bocce ferme è semmai questo: a parte la peculiarità della piazza Grande come teatro “open air”, a parte la peculiarità della città che di suo non è malvagia anche nella brutta stagione, si tratta di capire se il “festival” sarà ancora “di” Locarno o semplicemente “a” Locarno. Anche qui, mai dare nulla per scontato.