Mal vanno le cose, se quale punto più alto – e l’unico memorabile – di una serata televisiva prefigurata quale grande evento siamo portati a citare il lavoro delle due presentatrici di servizio per l’emittenza parapubblica elvetica. Per quanto elevati investimenti siano stati effettuati al fine di nobilitare la manifestazione; per quanto nell’organizzazione si siano esaltati nel dichiarare di aver raccolto “sponsor” in quantità – vedremo poi i conti consuntivi – e prevenduto biglietti al limite delle capienze; per quanto il “battage” sia stato spinto a livelli siderali (compreso il contorno con villaggio dedicato e sfilate similolimpiche delle delegazioni su tappeto di color turchese) e per quanto il “broadcaster” ufficiale (cioè l’armata Ssr con l’affiliata “Swiss Teletext”) si sia prodotto in sforzi significativi in materia di accessibilità al prodotto con formule quali audiodescrizione, sottotitolazione ed interpretazione in lingua dei segni, l’edizione 2025 dell’“Eurosong” (formalmente “Eurovision song contest”) rischia di passare alla storia come un “bluff”, o nella migliore tra le ipotesi come un parto non riuscito. Altro che “(…) esibizioni mai viste prima” in questa manifestazione, altro che rivendicazioni sul tono del “(…) ci siamo spinti oltre ogni limite creativo e tecnico per sperimentare tutto ciò che è possibile fare dal vivo su un palco”, e sono frasi di Yves Schifferle, responsabile della parte spettacolare e senza dubbio persona degnissima sicché la citata degnissima persona non se la prenderà se le si dice di calare due dita perché non ha reinventato la ruota e non ha dimostrato l’ipotesi di Bernhard Riemann: ieri, davanti allo schermo, gli sbadigli erano interrotti soltanto dai pisolini tra un’esibizione e l’altra, o durante le esibizioni medesime. Tanto che la parte migliore è stata offerta da Hazel Brugger e Sandra Studer, anche con interpretazioni personali dall’apparente spontaneità. Hazel Brugger e Sandra Studer sono per l’appunto le conduttrici (a loro, nella serata finale ovvero sabato, si aggiungerà Michelle Yvonne Hunziker); ed è come se, nel ritornare in comitiva da una lunga gita turistica alla scoperta dei vigneti del Lavaux o dei castelli argoviesi, si scoprisse che l’unica cosa buona della settimana è stato il buonumore dell’autista del pullman. Bravo, da medaglia, da mancia, ma tutto lì.
Non qui si discute circa l’essere tale “Eurosong” un carrozzone di vuotaggine (tesi sostanziale di coloro che avrebbero volentieri fatto a meno dell’appuntamento, tanto da averne contestato natura e finanziamento) o una mirabile occasione per un punto di sintesi fra Occidente ed Oriente delle sette note (tesi propugnata dagli organizzatori, che in verità continuano a considerare questa Europa in formula oltremodo svasata verso Est, partecipando anche quest’anno Georgia, Armenia ed Azerbaigian, e siamo dunque sulle rive del Mar Caspio); si affrontano, invece, due aspetti di sostanza. Primo appunto: per quel che è stato visto nella prima serata, e per quel che sappiamo grazie ai preascolti oltre che all’esito delle selezioni nazionali da cui sono scaturiti i concorrenti, la qualità media dei brani in gara è triste e molliccia, oggi più che nel recente passato; al capitolo voci, essendo vietati il “playback” e l’“autotune”, figuraccia fa chi ugola non ha, e la gestione registica del suono può aiutare ad evitare il peggio, ma non a salvare l’insalvabile; in assenza di talento a misura dello stile, colori ed abbigliamento rivelano poi una tendenza consolidata a dimostrare che si ha perfettamente l’idea di quel che sia lo stile a misura di talento (a zero l’uno, a zero l’altro). Secondo tema: la formula è frusta e superata, sa di romanzetto che puoi leggere (e mollare) aprendo a caso il libro; coinvolgimento assente, “performer” raramente in interazione, se non con il pubblico a casa, almeno con gli spettatori a distanza di sette metri dal palco; le eliminazioni sono sacrosante ma troppo poche, del giro d’iersera si salvavano in quattro o cinque e per contro ce ne ritroveremo 10 cioè Norvegia, Albania, Svezia, Islanda, Paesi Bassi, Polonia, San Marino furbescamente italianizzatasi con Gabriele “Gabry” Ponte (sui 20 arrivati in finale al “San Marino song contest” 2025, già “Una voce per San Marino”, l’unico figlio della Serenissima Repubblica era Paco Zafferani, già portiere del San Giovanni di Borgo Maggiore nel Campionato nazionale del Titano), Estonia, Portogallo e l’inevitabile Ucraina (non sia mai che si contesti qualcosa di ucraino, dall’Ucraina vengono solo tutto il buono e tutto il bello del mondo); inspiegabile semmai il taglio della Slovenia; non più di quel tanto, ed anzi pochissimo, rimpiangeremo Belgio, Azerbaigian, Croazia (ma che succede in Croazia? Miroslav Skoro, perdonali perché non sanno quello che fanno) e Cipro.
Per inciso: al di qua del confine, proprio grazie ad Hazel Brugger ed a Sandra Studer, le cose sono andate almeno non male, mentre pare che a sud di Chiasso e di Stabio e ad ovest di Brissago – diciamo così per atto di equanime simpatia verso le tre province confinarie – abbiano dovuto lagrimare in misura preficale causa per l’appunto una conduzione televisiva inadeguata: demoralizzanti le battute (scritte dagli autori, e letteralmente lette); algidamente professionale ma lontanissimo dai suoi toni di umorismo in cifra “Trio Medusa” – ed anche a mal partito con qualche traduzione dall’inglese – il marchese Gabriele Corsi Flores d’Arcais; semplicemente incapace la sedicente “rapper” e cantautrice Marianna Mammone alias “BigMama”, il cui massimo contributo autogeno si è tradotto nell’introdurre ogni frase propria con un “Sono sincera…” (beh, di certo non la pagano per raccontar fandonie).
Sull’angolo ultimo, con riserva di commento fuori dalla competizione e sempre sperandosi in un colpo d’ala nella seconda serata cioè domani, giovedì 15 maggio, lasciamo il vergognoso tentativo di caricare l’“Eurosong” di valenze politiche e di toni dolosamente estromissori. E su questo ci fermiamo, ma occhio.