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L’editoriale / Potevano farlo? No. E che la cosa non passi all’acqua bassa

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Non staremo a cavar fuori l’espressione secondo cui lo sport ha da rimanere fuori dalla politica, e viceversa: trattasi di merce buona per i retori da giovedì sera al “Club del libro” in qualche periferia metropolitana. Alcune riflessioni, ed una condanna senza appello, richiede tuttavia l’atto compiuto dagli schermidori Ian Hauri, Théo Brochard, Jonathan Fuhrimann e Sven Vineis che ieri, durante la cerimonia di premiazione negli Europei “Under 23” a Tallinn (Estonia), si sono rifiutati di voltarsi verso il lato delle bandiere, come è da prassi in onore della squadra vincitrice e del Paese di cui t . Per meglio dire: avevano stretto la mano agli avversari da cui erano stati battuti in misura nitida (29-45) nella finale, si sono fatti fotografare sorridenti sul gradino di sinistra del podio, ma al momento dell’inno della nazione vincitrice non si sono mossi. E perché? Perché quella nazione si chiama Israele, perché sulla bandiera più in alto sul pennone virtuale sta una Stella di Davide all’interno del “tallèd”, scialle rituale per la preghiera ebraica.

Di quel che sta accadendo nella Striscia di Gaza, sulle conseguenze e per reazione alla strage perpetrata da miliziani dell’organizzazione terroristica “Hamas” al “Festival musicale Supernova” di Re’im all’alba di sabato 7 ottobre 2023, tutti sappiamo o dovremmo sapere e qui non ci dilunghiamo. Non sappiamo invece come e quando i quattro agonisti in maglia rossocrociata nella specialità spada abbiano deciso di restare immobili sul cubo di sinistra, dunque fronte pubblico, anziché rendere omaggio al vessillo così come stavano facendo i loro colleghi israeliani (Tavor Itamar, Alon Sarid, Fedor Khaperskiy eYehonathan Lambrey Messika) ed i loro colleghi italiani (Filippo Armaleo, Enrico Piatti, Simone Mencarelli e Nicolò Del Contrasto), terzi classificati questi ultimi avendo perso proprio contro la Svizzera ma essendosi imposti nella finale per il terzo posto: si presume che la pensata sia maturata poco prima della premiazione, anche per via del fatto che, in termini di qualità, la squadra elvetica era data per sostanzialmente equivalente a quella israeliana, come dimostrato nella prima parte del confronto, e dunque ben diverso risultato sarebbe potuto maturare, azzerandosi pertanto l’esigenza di omaggiare la bandiera altrui.
Potendosi di massima escludere l’essere stato tale eterodiretto (tale e denegata ipotesi condurrebbe ad una lettura da Apocalisse per la Federazione, i vertici della quale si sono opacamente distanziati dall’episodio mentre vigorosa è stata la reazione a più voci da Israele), e nel frattempo potendosi immaginare che uno abbia proposto e che gli altri tre si siano accodati, il pronunciamento è lardellato da tre o quattro peccati che bastano e sovrabbondano per ridicolizzare l’azione e chi l’ha compiuta. Prima valutazione: per quanto siano tutti e quattro maggiorenni, si dubita dell’essere i signori Ian Hauri, Théo Brochard, Jonathan Fuhrimann e Sven Vineis nella piena conoscenza dei fatti per i quali essi hanno creduto opportuno (anzi, necessario) lo schierarsi; improbabile, per farla semplice, che essi siano in grado di superare un esame di storia da livello liceale. Secondo punto: all’interno di quel contesto, così come dell’àmbito degli studi e del lavoro, si rispetta il prossimo così come si ha diritto di essere rispettati; una cosa è l’eventuale antipatia personale, non di rado presente tra atleti della stessa parrocchia e figurarsi tra soggetti d’opposte squadre, ed un’altra è il traslare sui singoli (la bandiera, gli avversari “in primis”) un’eventuale idiosincrasia che si provi verso questo o quello Stato e verso ciò che quello Stato rappresenta o si crede che rappresenti. Terzo aspetto: nel momento in cui metta piede in pedana (o sul “parquet”, o in campo, o su una pista) con la divisa della Svizzera, un qualunque Gigi Bernasconi non deve nemmeno pensare di fare qualcosa che possa costituire detrimento o motivo di discussione o causa di scandalo per il Paese che egli rappresenta e la cui identità è in effigie; all’esterno, senza simboli e senza coccarde appuntate sul petto o trofei tra le mani, liberissimo anche di fare campagna per i Verdi o per i liberali e di sostenere un “referendum” o un’iniziativa popolare, se vuole anche come primo firmatario, o – se intendiamo rimanere a rigore del “casus belli” – mettersi a marciare attorno a Palazzo federale inalberando un cartello con la scritta “Free free Palestine / From the river to the sea”; nel contesto agonistico, spazio solo allo sport ed alle emozioni.

Ian Hauri, Théo Brochard, Jonathan Fuhrimann e Sven Vineis, che agonisticamente parlandosi godono di rispetto e nessuno nega loro un equo riconoscimento, erano su un piedistallo meritato ma si sono sentiti in diritto di fare il salto su un altro piedistallo, arrogandosi un’interpretazione in ruoli che non conoscono e che non sarebbero di loro competenza qualora anche disponessero di sufficiente cultura. Si prenderanno applausi e pacche sulle spalle, come no?, da pezzi di platee nazionali ed internazionali; magari scamperanno anche ad una squalifica, ma la loro è stata una pessima idea, per sé e – purtroppo – per quanti sono ora costretti a raccogliere i cocci. Spiegatevi poi voi con gli “sponsor” e con chi agisce nelle pubbliche relazioni per garantire alla Federazione un’immagine positiva, spiegatevi.