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L’editoriale / “Festival”, fiumi di retorica ma grazie a Dio ci sono i film

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Rende un cattivo servizio tanto a sé stesso (e pazienza) quanto agli interlocutori (e questa è cosa grama) chi intercetta brandelli di storia avendola studiata poco e male e cerca di cacciarla in un discorso ufficiale affidandosi alla parvenza ed all’etereo perché ciò fa colore; il che fu purtroppo udito, con lanci e scarichi a palle incatenate, stasera all’apertura dell’edizione 2025 – 78.a in ordine di tempo – del “Festival internazionale del film” di Locarno, che noi insistiamo a scrivere così, anziché in forma sincopata, perché sull’internazionalità è stato costruito nel tempo il valore spendibile dell’evento. A taluni, tanti ed in ogni caso troppi piacque, nei discorsi ufficiali tenuti all’ex-“Magistrale”. l’affidarsi per ridondanza al mito dell’“esprit” che, ricorrendo il centenario dal “Patto di Locarno” elaborato in forma di sette accordi multilaterali nell’ottobre 1925 al Pretorio ma firmato due mesi più tardi in altra sede (a Londra), sarebbe sovraneggiante e pervaderebbe tuttora piazza Grande e le sue pertinenze, dal “quai” ai Saleggi e financo a Solduno che al tempo formava repubblica a sé, et cetera; perché il “Patto di Locarno”, nelle varie affermazioni portate all’ambone, fu bussola politica e contesto di nuovi concetti e di nuovi progetti, sicché ad esempio esplose e proruppe l’impegno a definire i confini senza incertezze ed a stabilire la risoluzione delle controversie per tramite del dialogo ed eventualmente degli arbitrati, e da qui il citato “esprit Locarno”. Il quale “esprit Locarno”, al di là del suono non dissimile da quello d’un prodottino imbottigliato e venduto sugli scaffali di qualche “discounter”, è un caso palese di oniricamente raccontato ma ontologicamente inesistente e la cui inesistenza fu dimostrata dalla storia medesima. 1925, la firma; 1926, l’entrata in vigore; tra i firmatari uno Stato – l’Italia – già dal 1922 sotto regime dittatoriale nato anche dalla frustrazione per quella che era descritta come una “vittoria mutilata” nella Prima guerra mondiale, poi un altro Stato – la Germania weimariana – che in quanto sconfitto cercava di uscire dalle pastoie della “Pace di Versaglia” e che stava correndo verso l’abbraccio letale all’ideologia nazista (nel 1926 la costituzione della “Hitlerjugend”, nel 1933 l’ascesa al potere), poi un altro Stato – la Cecoslovacchia – che nel 1938 sarebbe stato chiamato alle armi e quasi contestualmente smembrato causa occupazione dei Sudeti, e via via; ci credettero cioè si fidarono di più i polacchi, che però all’inizio del settembre 1939 si ritrovarono una Germania in casa ed ai carri armati invasori opposero ciò di cui disponevano, figuratevi l’equilibrio. Gli effetti del “Patto”, romanticamente esaltati e celebrati in più salse alla “Magistrale” mentre molti scalpitavano per dileguarsi verso il maxischermo “en plein air” o altra destinazione cinematograficamente attraente, furono meno duraturi di quelli d’una qualunque pace belligerante, diciamo sei-sette anni in media essendo peraltro quei sei-sette anni ben tumultuosi in più luoghi; ed è il caso d’essere onesti nel riconoscere che l’“esprit Locarno”, che per noi tutti è raffigurato in una meravigliosa foto corredata da firme, fu spazzato via dai colpi delle cannoniere e dai cingoli dei “Panzer”.

Citati che siano i relatori (sindaco consigliera di Stato consigliera federale presidente dell’evento; si è astenuto dal microfono, per evitare uno sforamento nei tempi, Raphaël Brunschwig presidente del Consiglio di amministrazione), detto anche del malore da cui è stato colto uno tra i presenti (auguri per un pronto ritorno alla piena salute) con interruzione della cerimonia per un quarto d’ora, è venuta l’ora del “festival” in quanto tale, cioè della rassegna che lascia gli orpelli agli orpellatori. Onore a Giona Antonio Nazzaro, direttore artistico, che per l’atto inaugurale in piazza ha voluto una “prima” mondiale come “In the land of Arto”, originale produzione franco-armena che a scatola chiusa – nel senso: materiale visto ma senza evidenza di un “panel” di spettatori – è stata già acquistata per la distribuzione. Ed onore all’“Orchestra della Svizzera italiana-Osi” per le cascate di note che al “Fevi” (pardon, “Palexpo”) hanno accompagnato, con esecuzione in tempo reale, un “western” dell’epoca del cinema muto, del 1926 il timbro di Samuel Goldwyn produttore, Henry King il regista, “The winning of Barbara Worth” il titolo originale, “Fiore del deserto” e “Sabbie ardenti” e “La rivincita di Barbara Worth” le edizioni con cui fu proposto in Italia; fra gli interpreti c’è persino un Frank James “Gary” Cooper che era entrato nel “sistema” hollywoodiano sì e no un anno prima e che qui, raccontano i cinefili, ottenne per la prima volta un accreditamento. Almeno un “esprit”, quello del saper ricercare ed innovare, a Locarno è salvo. E senza anfosa prosopopea.

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