Durata lo spazio di un mattino, e mal percepita il primo anno non dovendosi nemmeno dire della latenza nel secondo, l’esperienza dell’ora 43enne Lili Hinstin alla direzione artistica del “Festival internazionale del film” di Locarno (sì, noi si resta alla versione tradizionale): oggi l’annuncio della fine del rapporto, circa il quale viene al solito speso l’aggettivo “consensuale” e potete liberamente domandare a qualunque avvocato quanto la pretesa consensualità sia statisticamente incidente sul totale dei divorzi. A “divergenze strategiche” accenna la nota-stampa diffusa: tanto basta.
Diremo: i direttori passano ed il “festival” resta, ed in questo caso non vi sarà nemmeno la traccia del rimpianto, causa impalpabilità dell’apporto conferito da colei che aveva raccolto l’eredità da Carlo Chatrian, nemmen costui in grado di fare l’unanimità ma almeno ben calato nella dimensione locarnese. Cosa del tutto venuta a mancare nel caso di Lili Hinstin, dimostratasi priva del criterio di percezione del “genius loci” o forse non interessata a cercarlo. Chiaro: a Locarno si può entrare a spallate oppure bussando, ma se bussi ottieni di sicuro qualcosa di più e di meglio anche per la tua serenità; e per dirigere questo “festival”, ora che il “Palacinema” è realizzato ed ora che le certezze del sostegno pubblico sono date, non occorreva un Albert Einstein.
Di passaggio, tirata d’orecchi anche a chi volle Lili Hinstin: su quali basi, perché, con quale logica, boh. Nel frattempo: adieu, bon voyage.