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L’editoriale / A compimento d’un’opera, d’un tempo, d’una persona

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Nessuno può dire, in corpo e mente sani, di nutrire una passione per la morte; non lo fa nemmeno la Antigone sofoclea, pur dando compimento “suapte manu” all’atto esiziale all’interno della caverna in cui è stata imprigionata per decreto del sovrano Creonte; non lo pretende neanche un Rainer Maria Rilke, tra i lirici che pure riconoscono volti affini e congruenti alla fine della vita terrena ed al suo massimo esplicitarsi. Esiste però una forma – elevata, alta, spirituale, concreta e naturale – di amore per la morte, nel senso della serenità nell’accettazione del “Non più qui” come parte ineludibile del vivere. In questa accettazione, oggi, nel ridestarci avendo ancora negli occhi l’immagine di Jorge Mario Bergoglio che poche ore prima stava parlando ai cristiani ed ai non cristiani d’ogni angolo della Terra – egli, venuto ed anzi fatto venire “quasi dalla fine del mondo”, come disse nella sera dell’elezione – e che ora è semplicemente “tornato alla casa del Padre” (così il cardinale Kevin Joseph Farrell, con scelta non casuale delle espressioni più coerenti con un Cristianesimo scabro sempre invocato ma solo in parte attuato), in questa accettazione, ripetiamo, viene da riconoscere il momento storico nel quale l’anima di papa Francesco si è separata dal suo corpo, oggi, un’ora dopo l’alba.

Non ignorava, Jorge Mario Bergoglio, quale fosse la gravità della malattia da cui era stato colpito; eppure, nella sua condizione di sofferente, aveva scelto di tornare in pubblico quando gli era tornato un filo di voce, limitatissima l’autonomia di forze e fiato, la carrozzella spinta dagli accompagnatori. A margine dell’incontro con una settantina di detenuti, giovedì scorso, durante la visita al carcere di “Regina Coeli” in Roma, il pontefice era stato geometrico nel dare i parametri della “sua” Pasqua 2025: “(La) vivrò come posso”. Ed il “Posso” era stato scandito dalla volontà di presenza, un minuto dopo l’altro, evitando Jorge Mario Bergoglio persino quelle cautele che di sicuro gli erano state raccomandate e cioè andando al contatto con il prossimo, manifestandosi e lasciando tracce che ora si rivelano come forza e segno; per la pace, l’ultimo appello. Papa Francesco, ecco, è andato incontro alla morte, in coscienza ed in libertà di cuore, trascinandosi sino al tempo più forte nel calendario liturgico ossia alla Pasqua di Resurrezione, da servitore della Chiesa – questo è indubbio; molto rimarrà da discutersi su “quale” Chiesa egli abbia lasciato ai posteri – e da interprete dell’unica missione di cui era stato investito, ossia il portare a compimento la parola di Dio; Pasqua, con il Calvario personale affiancato a quello di Gesù Signore, come il Paolo che rivolgendosi ai Colossesi rivelava una “felicità” nel soffrire per loro, completando nella sua carne “quello che manca ai patimenti di Cristo” ed “a favore del suo corpo, che è la Chiesa”.

Ecco, di compimento si può parlare, nel caso e nel nome di papa Francesco. Nella notte di Natale 2024, l’apertura della “Porta santa” in san Pietro a Roma, atto principiante del Giubileo 2025 che, al pari di quanto avvenne nel 1700 con Innocenzo XII, altri porteranno avanti, in sede vacante ora ed auspicabilmente con un nuovo pontefice eletto entro breve; a metà gennaio la sua autobiografia, con un titolo che è passato presente e futuro, “Spera”, l’invito al credere alla certezza del Qualcosa-Che-Avverrà (e “Spes non confundit”, ossia “La speranza non delude”, recitava la bolla di indizione del Giubileo); poi l’esplicitarsi di una malattia combattuta apertamente, poi nel chiuso del decimo piano al “Gemelli”, poi di nuovo davanti a donne e uomini cui sì, anche questo è vero, il Vangelo è stato portato e proposto con sanguigna umiltà. I cinque Continenti, tutti raggiunti nel corso del papato; le quattro encicliche, dalla “Lumen fidei” del giugno 2013 alla “Dilexit nos” dell’ottobre 2024. Infine, come nel salmo responsoriale del Venerdì santo, il momento della chiusura di una vita terrena e di un tempo individuale e collettivo: la resa, forse un “ictus” riferiscono ora dal Vaticano, il “Nelle tue mani, Dio, affido il mio spirito”.

E forse, ora che da Jorge Mario Bergoglio ci congediamo, con lui e di lui possiamo dire: così come nella Pasqua 2025, in ogni giorno del suo sacerdozio egli ha fatto quel che era nelle sue possibilità, dove ciò era nelle sue possibilità, ogni volta che ciò era nelle sue possibilità, per quanto era nelle sue possibilità.