Non hanno bisogno di registrarsi con un cognome (storia lunga e tortuosa, se capiterà l’occasione ne parleremo in altra circostanza), in gran parte dell’Indonesia, per cavar fuori dal cilindro qualche bravo regista. E sa più di premio al regista Edwin che di riconoscimento all’opera presentata (“Seperti dendam rindu harus dibayar tuntas”, transléscion in “Vengeance is mine, all others pay cash”) il “Pardo d’oro” attribuito oggi a Locarno quale atto conclusivo ed apicale del “Festival internazionale del film”, edizione numero 74, livello di entusiasmo già non trascendentale al di là dei lustrini perché a volte vengono fatti passare per attori anche i muli e già ci si astiene da identificazioni di genere, figurarsi dopo il dramma in cui il Ticino è precipitato per la morte di Marco Borradori sindaco di Lugano e, come qualche foto giunge a rammentarci a riprova dell’oggi ci siamo domani non si sa, allegro e sorridente e conviviale proprio su piazza Grande appena una manciata prima dell’infarto dall’esito a tutti noto. Insomma, si aveva in canna da quasi due settimane il titolo-macedonia a caratteri cubitali in parola secca, “Ed-win(s)-donesia” ben scandito e cioè un “Edwin vince e vince l’Indonesia” perché parve sin da sùbito che non ci sarebbe stata gara al di là dell’ossessione del regista per una questione di sesso che si erge e di sesso che non si erge (categoria: du’ palle), ma la pensata si è sfiorita tra le dita sul finire, va bene, mandiamo agli archivi ‘sta Locarno e felicitiamoci il giusto anche con Dario Argento cui giusto sulla pubblicazione del pezzo viene consegnato il premio alla carriera (in quanto autore ed anche in quanto attore in “Vortex”, giusto).
Tutto ciò espresso, in ordinarie condizioni una sostanziale concordanza troverebbero tutti o quasi tutti gli altri riconoscimenti attribuiti: nel senso che non metti di mezzo un Abel Ferrara se non gli assegni il Pardo miglior regìa (per “Zeros and ones”), ed allo stesso modo si direbbe che non è mal speso il Pardo d’oro dei “Cineasti del presente” per il “Brotherhood” di Francesco Montagner, ferma restando l’obiezione circa il titolo (300’000 termini in un buon vocabolario e non si riesce ad evitare la replica di altri prodotti già visti?); sulla questione del “Legionario”, diretto da Hleb Papou che per tale lavoro aggiunge il suo nome all’elenco dei migliori registi emergenti, tutto bene – tanto di più se è vero (e chi ne dubita?) che bastarono 10 giorni per il girato lordo – ma occhio a non generare nuovi stereotipi circa i “secondos” che prima soffrono una discriminazione e poi diventano parte delle istituzioni non dimenticando tuttavia di aver vissuto tempi più grami, e dunque la dicotomia si ripresenta pur nella certezza della giustezza delle scelte compiute, et cetera; scoccia il dirlo, ma già sul piccolo schermo stanno circolando sin troppi cloni dell’idea, e quindi bravo il giovanotto bielorusso approdato a Lecco quand’era ragazzino, potrebb’anch’esser che si sia incappati in un tizio culturalmente geniale, la prossima opera forse racconterà.
Doppio scioglilingua sul Pardo per la miglior interpretazione femminile (ad Anastasiya Krasovskaya diretta da Natalya Kudryashova nel pretenzioso “Gerda”) e sul premio speciale della giuria (a “Jiao ma tang hui” di Jiongjiong Qiu). Essì, perdonateci: abbiamo la testa da un’altra parte, ci si fa colpire dalle minuzie ma non stiamo trascurando la sostanza; soprattutto laddove la qualità, se c’è e di questo non si è propriamente convinti, annega nella lunghezza del materiale imposto allo spettatore, in un caso 111 minuti e ne sarebbero bastati 100, nell’altro 179 ed a questo punto fate voi, al cambio corrente saremmo disposti ad investire tre ore della nostra vita solo per una “Carmen” bizetiana diretta dal signor Eriberto Cavaliere nel senso di Herbert Ritter von Karajan, morta lì. Menzioni speciali a “Soul of a beast” di Lorenz Merz ed a “Espíritu sagrado” di Chema Garcia. Da “Sis dies corrents” di Neus Ballús i Montserrat, infine, spuntano i pardati per la miglior interpretazione maschile, Mohamed Mellali e Valero Escolar; da cantonali quali si è, e per cantonali ci si descrive scherzevolmente nella natura di provinciali che non dispongono geograficamente di una provincia, avremmo in ogni caso tifato per i cugini catalani, ma qui il lavorone c’è e che diamine, resta film quel che film è, brava la regista e bravi i suoi soggetti “comuni” (oh, i fini critici con tono lamentoso esprimeranno riserve sull’attorame non professionista; con certi professionisti in circolazione, Dio ci salvi dalle scuole di recitazione). E poi, sapete: “Á la terra dels cegos qui tè un ull es rey”, sentenziano i catalani, e chissà come mai siamo d’accordo. Ad esempio, e se vi càpita, guardatevi gli 80 minuti dell’italica produzione sotto il titolo “I giganti”: noia mortale, idee poche ma confuse, banalità al potere.