Home SPETTACOLI Far la fame per la fama: il “Pardo d’oro” ad uno stereotipo

Far la fame per la fama: il “Pardo d’oro” ad uno stereotipo

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Se sia ‘sta grand’opera, non diciamo e non diremo: tema scontato ed iperspeso, tema già a lungo oggetto di analisi e di valutazioni e di contestazioni, tema che ovviamente ammicca ad uno dei “must” del periodo corrente che è poi il “body shaming” (basta un chilogrammo di troppo ed ecco scattare l’ostracismo e persino la messa al bando), tanto di più nel mondo delle adolescenti con l’ambizione di sfilare; e quindi via con luci sparate sui loro momenti difficili, sulle loro insicurezze, sul loro impegnarsi sino a sfiorare la morte per cacciar via un inestetismo e per rimediare ad un passaggio fallimentare sulla bilancia, quante lacrime e quante sofferenze e quanto dolore crudamente portato in immagini all’interno di quella scuola-agenzia che dovrebb’essere trampolino di lancio per una carriera da piena ribalta . Con cotale pacchetto la giovane regista lituana Saulé Bliuvaité, che aveva all’attivo un paio di corti tra 2019 e 2021, si è aggiudicata oggi il “Pardo d’oro” ed anche il premio per la miglior opera prima alla 77.a edizione del “Festival internazionale del film” – noi restiamo alla dizione storica: siamo pervicaci, ma detestiamo gli allineamenti modaioli – con quell’“Akiplésa” riportato in traduzione come “Toxic”, 99 minuti in 4k, gli interessati hanno avuto modo di apprezzare (se hanno apprezzato) nel giro di proiezioni tra “Palexpo Fevi”, “L’altra sala” e “La sala” con sottotitoli in francese ed in inglese; corpi ben scelti e faccini da stereotipo, ergo “casting” azzeccato, sul resto si oserebbe anche muovere un paio di osservazioni che partono dal mondo reale. Fra tutte: l’approdare al mondo della moda sarà anche uno strumento per l’emancipazione a tutto tondo, da quella personale al riscatto dalla povertà e via discorrendosi, ma Saulé Bliuvaité non ci ha raccontato nulla che non conoscessimo, nulla di cui non fossimo al corrente, nulla che sia diverso da altre testimonianze del medesimo tenore e nulla che, in ultimo, sia in grado di spostare il baricentro della questione.

Prosaico e crudo è anche il ricordare – lo si fa come e qualmente: siamo leponzi sbronzi ed anche stronzi, noi – che a fronte delle manciata di emaciate esordienti senza né arte né parte restano migliaia ed anzi centinaia di migliaia di ragazze, negli stessi Stati baltici da cui proviene la regista cimentatasi con un lungometraggio di cui bastava la metà, emergono invece in altro che richiede talento, energia, competenza, attitudine alla ricerca di ciò che qualifica la persona. Può valere, certo, il messaggio dell’universalità del problema, nel senso che le stesse trafile, le stesse costrizioni, gli stessi impedimenti, le stesse lacrime incontreremmo nei medesimi contesti tanto a Pavia quanto a Reykjavik quanto a Varsavia quanto a Chicago, città qui menzionate non a caso ma perché così Wikipedia ce le indica come gemellate con Vilnius; per converso, proprio perché ciò accade a Pavia ed a Reykjavik ed a Varsavia ed a Chicago non vi è nulla che induca ad esclamare un “Toh, eh, beh, davvero?”. Neoneoneorealismo? Naaa. Denuncia? Macché. Rappresentazione di uno squarcio tra speranze e disillusioni? Diciamo che sì, proprio volendosi spremere l’uva oltre il fiocino e sino ai graspi. Vi invitiamo tuttavia ad un esperimento: una volta che abbiate letto queste righe, lanciate una ricerca su InterNet e cercate il giudizio che altri avranno dato. Siamo disposti a scommettere che, a mo’ di commento per l’attribuzione del “Pardo d’oro” ad “Akiplésa”, spunteranno decine di recensioni e/o di commenti con la frase “(…) ritratto incisivo delle schiaccianti aspettative imposte sulle giovani adolescenti”. È la frase del comunicato-stampa, copia-e-incolla in cui si crogioleranno i critici appecoriti.

Su questo va agli archivi l’edizione numero 77, 24 ore in più nell’offerta per complessivi 11 giorni, primo esperimento sotto la presidenza di Maja Hoffmann, i numeri racconteranno che c’è stato un incremento di presenze e di incassi. Della giuria erano membri la regista Jessica Hausner, la produttrice Diana Elbaum, il cineasta Payal Kapadia, l’attore-regista-produttore Tim Blake e l’attore Luca Marinelli; a “Mond” di Kurdwin Ayub il premio speciale della giuria, a Laurynas Bareiša per “Seses” (anche qui produzione baltica, e meglio lituano-lettone) il “Pardo” per la miglior regìa con l’aggiunta del “Pardo” per la migliore interpretazione a Gelminé Glemzaité, Agné Kaktaité, Giedrius Kiela e Paulius Markevicius; altro “Pardo” per la migliore interpretazione a Kim Minhee per “Suyoocheon”, e con questo è sistemato l’Estremo oriente; soltanto menzioni speciali ai film “Qing chun (ku)” (ma il regista Wang Bing vinse già un “Pardo d’oro” nel 2017 con lo struggente “Mrs. Feng”) e per “Salve Maria” di Mar Coll. Che era il vero pugno nello stomaco del “Festival” 2024: per argomento evocato (di massima: la madre non è sempre una buona madre, l’accettazione di una nascita non è da darsi per scontata), e per fondamentali dell’opera (alle spalle le 208 pagine del libro “Le madri no”, autrice Katixa Agirre Miguelez: non una lettura utile se si vuol prendere sonno), ed ancora per scenari che la cronaca non di rado porta alla nostra attenzione (detto fuori dai denti: di Medee euripidee è pieno il mondo). Ah, ma forse era un film troppo occidentale, arrivando dalla Spagna.

Postilla sui “Cineasti del presente”, cui crediamo per atto di fede (sono giovani, hanno vero futuro) e per atto di pietà (verso quelli che i nuovi sono pregati di relegare nell’oblio): con altra e più ristretta giuria, il massimo riconoscimento è andato a “Holy electricity” di Tato Kotetishvili e il premio per la miglior regìa emergente è stato assegnato a Denise Fernandes, anni 34, capoverdiana per ascendenze, nata in Portogallo, infine svizzera e più che mai locarnese; forse non conoscete i suoi genitori, ma è nipote di Américo Fernandes, l’uomo della “boxe” con la palestra che sta tra la sede dei Pompieri ed il “Palexpo Fevi”. Il film, da vedersi e non a caso in menzione tra le opere prime, è “Hanami” e fa una cosa sensata quando si ha tra le mani una macchina fotografica o una cinepresa, cioè racconta di Capo Verde e delle sue persone. Detto tra di noi: c’è dentro un’idea, sarebbe anche buona base per Denise Fernandes se volesse lanciarsi in una personalissima trilogia le cui prossime tappe avessero cuore e testa a Lisbona ed a Locarno. Chissà.

Nella foto GdT, quel che resta del “Festival”.