Di quel che fu il “cursus honorum” di Marco Borradori (in immagine, tra Michele Bertini già vicesindaco, fra Martino Dotta e gli “Amici del Gròtt mobil”), deceduto questo pomeriggio non avendo di fatto ripreso conoscenza dopo l’infarto subito sul mezzogiorno di ieri a Vezia, si sapeva e si sa e, solo per esigenze cronistiche, si fece menzione nell’immediatezza di una tragedia la cui entità non era sfuggita a nessuno, purtroppo con il corollario di qualche atto di insensibilità anche cronistica (se poi certi colleghi crederanno di poterci spiegare come procedano le cose in un decorso palesemente infausto, si sarà lietissimi di accoglierli e di seppellirli su competenza ed esperienza. Fine dell’inciso, tuttavia dovuto). Non si derogherà qui, perché nulla di ciò che è umano consideriamo alieno da noi, dal raccontare qualcosa di Borradori Marco (“Uh, queste “erre” in serie, non ha idea di quanti ci facessero sopra il ricamo, quand’ero ragazzino”) nelle misure del vissuto. Con semplicità, su tempi distinti ed in una scansione storica non organica, ma che affluisce alla mente affastellandosi i ricordi.
La discrezione – Il senso del privato, un “must”. Prodigo di immagini di sé, nemmeno sulle pagine “Facebook” l’onorevole Marco Borradori era invece disposto ad aprire il libro di famiglia; quasi introvabili, ad esempio, foto dell’ora scomparso insieme con il fratello Mario (peraltro non un illustre ignoto, sia quale professionista in àmbito legale sia per esperienza politica più che decennale nel Legislativo di Lugano) e con la madre Claudia. Un Raz Degan deallurizzato: “Sono cose mie, è nel mio carattere”.
La chiamata – Giuliano Bignasca, che era un califfo quanto ad intuizioni fra l’istituzionale e l’eterodosso e che sull’eterodosso aveva già colpito nell’aprile 1991 piazzando la bimba Joy Paloschi ed il muratore-filosofo Dino Baccalà tra i 12 eletti in Gran Consiglio, andò sull’onda a pescare Marco Borradori, cioè uno non propriamente leghista della primissima ora (per inciso: patente che non pochi hanno cercato di procurarsi a cose fatte), avendolo incontrato e conosciuto in situazione fortuita cioè ad un matrimonio ed ebbe un colloquio su binari non consueti nemmeno per lui. Marco Borradori fu schietto e sostenne infatti che su certi punti, chiari e netti, non avrebbe mai cambiato idea. Al “Nano”, storicamente magistrale nel reindirizzare in corso d’opera il pensiero e la strategia del movimento di via Monte Boglia, andò bene; il patto fu rispettato da cima a fondo.
Un “Lei” mai formale – Marco Borradori non aveva problemi nel gestire con un “tu” colloquiale anche le relazioni dall’alto profilo. Non esisteva, in verità, un codice preciso: chi incominciava con il “Lei” avrebbe ricevuto il “Lei” in sempiterno. Disponibilità, con i cronisti, al massimo livello: anche nell’aggancio “in corsa” lungo via Giuseppe Motta a Lugano, lungo il tratto pedonalizzato, dove ogni tanto capitava di fare quattro passi in affiancamento (“Ho riunione di Municipio, ma venga”; e via con il passo elastico, “Onorevole, Lei mi imita Pippo Baudo”; ghignata) per convenevoli o conferme su qualcosa che era in pentola. Rivelazione di segreti, o almeno anticipazioni, mai e mai: “Con la stampa, sempre negare, sempre diffidare”, e la testa si muoveva a ritroso per dimostrare che era tutt’una celia. Ma “dopo la riunione garantisco un comunicato, solo per le decisioni in sintesi, d’accordo?”.
«Guardi, ha ragione» – La barzelletta era gustosa, un po’ come quella su Mario Botta che progetterebbe case circolari per mettere al sicuro gli uomini cui la suocera invadente ha chiesto “un angolino” per sé, ed un giorno si trovò il fegato di condividerla con Marco Borradori himself. “Dunque, onorevole, gliela raccontiamo così e faccia finta che si stia parlando di un altro. C’è allora Marco Borradori che interviene ad una riunione, ascolta e dice “Siete nel giusto” a quelli che si trovano lì. Poi Marco Borradori esce, ed in fondo alla strada trova un gruppo di persone dall’avviso opposto: le ascolta, e dice “Beh, siete nel giusto”. A quel punto la segretaria prende coraggio: “Scusa, Marco, ma hai appena dato ragione a quelli che la pensano in un modo ed a quelli che la pensano nel modo opposto…”. E Marco Borradori: “Ma lo sai che hai ragione anche tu?”. L’avesse già sentita o fosse la prima volta, ormai non sapremo; ma all’intorno – e si era dalle parti dell’accesso a via Nassa in Lugano, in giorno da fiumana di gente – si girarono tutti per l’esplosione di ridarella.
Lo chiamammo “Fidel Nastro” – Nel Ticino della politica, si direbbe, guai a non avere o a non aver avuto un soprannome corsaiolo, a volte con richiamo a qualche somiglianza vera o presunta, a volte con punta di moderatissimo dileggio per un’attitudine; coniatore principe di appellativi, in tal senso, fu proprio il “Nano”, ed a tutt’oggi, parlandosi di amici che non se la prenderanno, Paolo Beltraminelli resta il “Putto verde” e Giovanni Jelmini rimane “Kung fu panda”. Quasi in… controffensiva, a Marco Borradori venne “imputata” per un certo periodo la formidabile elasticità dell’agenda personale, elasticità dalla quale derivava il “sì” a quasi ogni richiesta di presenza per una cerimonia, per lo scoprimento di un’opera, per l’apertura di un evento; in ragione del sistematico uso di forbici inaugurali comparve così l’appellativo “Fidel Nastro”. Spiazzante fu, Marco Borradori, all’apprendere tale novità: “Come, come? Ora sono “Fidel Nastro”? Ma è un soprannome bellissimo…”.
La racchetta da ping-pong – Negli annali del tennistavolo si troverà un Marco Borradori giovane campione ticinese, dalla minore alla maggiore età, e meglio fra i 13 ed i 19 anni; a qualche buon esito condusse anche la militanza pedatoria nelle file del Rapid Lugano. In famiglia, sia dal lato Borradori (in Gordola) sia dal lato Pelli (in Aranno: dei celebri Pelli “masarée” discendeva per l’appunto la citata Claudia, madre di Marco), l’interesse per lo sport non era del resto mai mancato: un nonno di Marco Borradori si era anche conquistato spazio nel “Guinness dei primati” per l’aver effettuato un lancio con il paracadute, sopra l’aerodromo di Locarno-Gambarogno frazione Magadino, all’età di 90 anni.
Il “pro bono” sul “Mattino” – Circolano a mazzetti, nelle serie tv di genere “legal”, i casi “pro bono”, solitamente assunti – perché lì sì, gli avvocati sono o eroi senza macchia e senza paura o bamboccioni imbranati o tizi privi di scrupoli – o perché bisogna far buona impressione su qualcuno o perché si sarebbe portati al viaggiare, con smisurata preghiera, in direzione ostinata e contraria. Proprio da… giurista “del popolo”, e cioè con la volontaria offerta di un’assistenza gratuita, aveva debuttato Marco Borradori sulle pagine del “Mattino della domenica”: era di fatto stato ideato e messo a punto – il merito va ad un collega tuttora sulla breccia – uno sportello cui rivolgersi per presentare reclami. Per posta arrivavano, è vero, anche storie da delirio di onnipotenza; trovavano invece immediata accoglienza le vicende “autentiche”, quelle generate da piccoli soprusi che sarebbero rimasti tali vuoi per il sommesso timore reverenziale dell’approccio alle sedi di giustizia, vuoi anche perché qualcuno non era in grado di permettersi un sostegno giuridico o non sapeva dove andare a cercarlo. La linea di Marco Borradori fu semplice: laddove possibile, offrire una speranza; negli altri casi, laddove cioè un percorso di rivalsa non esisteva per l’assenza di ragioni e/o di strumenti giuridici, garantire almeno la certezza di una spiegazione.
Mani intrecciate, e partì il “gossip” – L’estate ticinese dei cronisti, anni addietro, era spesso una tragicommedia per l’assenza di fatti degni d’essere riferiti al pubblico. Una volta, ed era il luglio 1994, ci si salvò raccontando le evoluzioni delle otarie Cesar e Otto, scappate dalle vasche di un circo acquartieratosi ad Ascona e furbescamente infilatesi a pinneggiare nel Verbano, su e giù, con avvistamenti sino alla diga della Miorina e gente ad assieparsi sui moli per cercare di intuire la traccia del transito dei due fenomeni che in ultimo, a distanza di quattro giorni l’uno dall’altro, furono catturati. Ma nulla superò, nel “gossip”, il mormorio dell’anno 2008 attorno ad una presunta “liaison” – necessariamente sulla cifra d’un Choderlos de Laclos – con Patrizia Pesenti, collega di Marco Borradori in Governo (a quel punto, da quasi due legislature), socialista cattolica (il che faceva venire l’orticaria a gran quota dei compagni) lei, leghista laico (mai laicista) lui, sei mesi la differenza anagrafica; nel mezzo del “Festival internazionale del film” a Locarno, vuoi mettere?, chiacchiericcio a colonnate, editoriali, interrogativi sulla liceità di un rapporto che taluni vedevano conclamato ed esploso sotto gli occhi di tutti. Marco Borradori, una volta chiamato direttamente in causa, spiegò che si trattava della tenerezza tra due persone che si vogliono bene e che si conoscono da tanto tempo (anche in corsi contigui all’Uni Zurigo, per dire). Uno squarcio di sensibilità che, a dirla come fu, non tutti apprezzarono, avendo essi prefigurato lo scandalo a corte e l’esigenza di un chiarimento che avrebbe dovuto portare alle dimissioni dell’uno o dell’altra, non Deus ma lex lo vult, o l’avrebbe preteso.
Ai ferri corti – Sarebbe stupida, ed irridente ed offensiva dei diritti del cittadino lettore, una relazione sempre consensuale fra giornalisti e politica; ciascuno, a farla breve, deve occuparsi del proprio mestiere. Nel tempo della polemica sull’impianto di termovalorizzazione che sarebbe stato da inserirsi nel contesto ticinese (i “millennial” e quelli della “generazione Z” non ci crederanno, ma sull’argomento si era arrivati ai padrini con scelta dell’arma da duello, durante il periodo della fortunatamente sventata strategia dei forni a griglia), tra Dipartimento cantonale territorio ed il quotidiano “TicinoOggi” – che fu un signor giornale, almeno nei primi cinque mesi; del resto non diremo se non avendo tra le mani chi causò il disastro, e scaricando la responsabilità su Silvio Flavio Maspoli – si giunse al livello dell’assenza di comunicazioni dirette. Qualcuno, dal palazzo, arrivò ad attribuire alla redazione di “TicinoOggi” una patente delinquenziale; il responsabile della redazione medesima rispose con quattro mezze colonne di piombo, rivendicando a tutte lettere capitali la totale onestà di intenti e di azione dei giornalisti. Prima di pubblicare (“TicinoOggi” andava in distribuzione nel pomeriggio dei feriali), una telefonata a Marco Borradori: “Onorevole, mi è spiaciuto quel che qualcuno dalla sua parte ha detto circa noi. La chiamo a titolo di preavviso: sono costretto a replicare, ed in via immediata, non per me che conto quel che conto ma in nome dei miei giornalisti che non meritano un simile trattamento ed un simile marchio. Poi non ci sentiremo per un po’: ho già consegnato le dimissioni, questa risposta sarà il mio ultimo pezzo”. “Non lo farà a causa mia, spero…”, replicò Marco Borradori. “No, ma La prego di riferire ai suoi funzionari che non avrei accettato lezioni, da loro, anche se fossi rimasto”. “Non posso darle torto, ci rivedremo?”. Ci si sarebbe rivisti, certo).
Tra birra e tavoli – Una notte libera di Carnevale, ore 4.00: Marco Borradori ancora in giro per i capannoni a Bellinzona, un tizio si avvicina ed attacca il pistolotto che sulle prime sembra un sermone da matto del paese. Marco Borradori, consigliere di Stato, invece si ferma lì e risponde, e tira l’alba a parlare di politica. Era così, il Marco.