Meno di 4’000 persone secondo le autorità, 6’000 per gli organizzatori: in questo, oggi a Bellinzona, l’impronta dello sciopero “all’italiana” non è mancata. Su invito dei vertici di Ocst, Vpod e Sit, secondo preannuncio, l’odierno sciopero portato sino alla fontana della foca davanti a Palazzo delle Orsoline, temi ormai noti che agli statali vanno di traverso e non a caso tutti a lamentarsi perché per una volta non sarà compensato il carovita e perché, “ope necessitatis”, nel ridondante e pletorico organico dell’amministrazione pubblica sarà evitato il rimpiazzo di ogni partente per quiescenza, a mo’ di esempio. Lì sta la sostanza, lì sta anche la risposta logica venuta dai membri dell’Esecutivo – con l’inevitabile “distinguo” di chi alla collegialità preferisce il personalismo: costa nulla e rende tanto, agli occhi del funzionario-elettore – che tale agitazione hanno classificato come “poco comprensibile”.
Ergo: novità concettuali portate nella giornata di protesta, zero a parte la promessa del “Ci rivedremo”; molta fuffa da propaganda, il solito arieggiare sul numero come potenza (che era poi un “refrain” mussoliniano. Lo si dice a beneficio di qualche urlatore oggi gloriatosi sul balletto delle cifre), qualche manipolo di anziani portati a far atto di presenza, circa la presenza degli studenti si dirà che è tutto legittimo ma che si dubita dell’avvenuta comprensione, da parte loro, del senso proprio di questa manifestazione, non essendo pregiudicato alcun diritto allo studio ed alla formazione cioè mancando qualsiasi congruenza, anche parziale, tra l’evento e quel che potrebbe rientrare nelle istanze dei giovani e dei giovanissimi (e difatti Massimiliano Arif Ay, da segretario del Partito comunista, è stato il più furbo di tutti nel conferire allo sciopero un senso da “lotta di classe” nel segno dell’interesse generale). Colpa dei giovani in piazza, no e no di bel nuovo; fuor dalla questione dei quattrini, che era il motore immobile dello sciopero, nessuno aveva argomenti da spendere; ecco quindi lo straordinario ricorso al processo alle intenzioni con la reiterata invocazione dell’incombente volontà altrui a procedere con lo smantellamento del servizio pubblico.
D’un punto è giusto che vi sia contezza: l’accusa di “terrorismo contabile” mossa all’istituzione politica di governo. Parole sparate così, nel mezzo, per strappare un applauso, ma inveritiere. Dall’Esecutivo si difenderanno come vogliono e sanno di sicuro come difendersi, perché nella democrazia diretta o semidiretta decide il volere espresso in un’aula parlamentare, salvo ed impregiudicato il diritto all’arma referendaria come avverrà difatti sulla riforma fiscale, ed al momento una maggioranza ha deciso che in un certo modo si procede; poi c’è il problema della “quidditas”, problema affatto sfuggito – per quantità, e financo per natura – ai promotori dello sciopero, oppure a costoro sfuggito, oppure da costoro ben compreso ma ignorato. Perché il Ticino, già quando le finanze pubbliche godevano di una certa salute e ci si poteva permettere un indebitamento in espansione, si sarebbe dovuto dotare di un meccanismo di vincoli sulla spesa, senza bisogno di aspettare i diagrammi e gli algoritmi mentali di un Sergio Morisoli, per dire dell’uomo più bersagliato dalle invettive della piazza. Molto “italiana”, in questo, ed italianamente si risponderà allora ai profligatori di professione: bambole, l’avete capito che non c’è una lira?