Home CRONACA L’editoriale / Aveva paura. Ma il sistema non ha saputo proteggerla

L’editoriale / Aveva paura. Ma il sistema non ha saputo proteggerla

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Dovreste dire “femicidio”, in luogo di femminicidio; ma non è questo il luogo per sottilizzare. Giustamente urlate, urlate il ribrezzo che un femicidio vi dà; giustamente, a fianco dell’orrore che un simile delitto scatena, cercate e magari trovate sponda in qualche associazione, in qualche politico, in qualche voce eclatante nelle istituzioni. Siate cortesi, siate chiari, però: al di là delle vostre parole, delle vostre prese di posizione, del vostro scendere in piazza, del vostro brandire cartelli e striscioni, quale garanzia di sicurezza sussiste per chi, a causa di precedenti concreti o almeno di minacce o almeno di un sentore, sappia di essere nel mirino, sappia di essere vittima potenziale, sappia di trovarsi in condizione di pericolo? Quale garanzia? Abbiamo una risposta, purtroppo: nessuna.

Questo è il generico canovaccio della generica storia di una generica signora N., e di quali fossero le sue paure per la propria incolumità, e di quanto quei timori fossero legittimi. Questo è il canovaccio di un qualcosa che forse non è mai avvenuto, ma probabilmente è avvenuto, e magari non lontano dalla nostra quotidianità. Questo è il canovaccio di ciò che, nell’ipotesi secondo cui ai timori sia corrisposta la realtà in qualsivoglia forma, chiameremmo dramma e tragedia. Poniamo dunque l’ipotesi secondo cui la signora N., ed abbiamo scelto proprio l’iniziale propria del “Nomen nescio” per quanto ben sapremmo qualora i fatti fossero accaduti, abiti nella periferia di una città o in un borgo di una valle. Ha lavorato sempre, la signora N.; è stata segretaria in importanti studi di avvocatura, per esempio; e continua a lavorare, non ha un marito o un compagno (non più, per ragionata scelta) ma vive tutt’altro che in solitudine, anzi, è persona conosciuta e ricca di amicizie e di solide relazioni sociali; un paio di relazioni importanti nella sua vita, due figli, per contiguità nell’alfabeto indichiamoli come L. e M., uno che sarebbe l’orgoglio di ogni madre e l’altro che, purtroppo, sin da giovanissimo si è infilato su sentieri laterali all’ordinario convivere. Sentieri frequentati talvolta a fianco di amicizie che restano vincoli a corso forzoso, anche con la caduta e con le ricadute nella droga; consumatore, poi consumatore con qualche cessione di stupefacenti a terzi, giro “pesante” perché il piccolo spacciatore che sia anche schiavo di coca ed affini rischia di non riuscire ad essere padrone delle proprie finanze e, quindi, finisce con l’indebitarsi. E i debiti con certi sodali, quasi sempre, sono gabbia priva dello sportello per l’uscita.

Così, mentre L. è fonte di felicità e di serenità, per M. non resta che sperare in un cambio di rotta. Con un sostegno costante, le lacrime sempre in tasca, nei momenti di difficoltà: il giovane evade dalla prospettiva di un’occupazione (sì, la madre si è prodigata per trovargli un apprendistato, ma all’appuntamento con il datore di lavoro non si presenta nessuno) e bussa sempre più di frequente a denari, è nervoso nei periodi di forzata astinenza, in un’occasione almeno finisce all’interno di una struttura protetta (per la droga quale causa di scompenso, e non viceversa, s’intenda), purtroppo la tentazione del ritorno alla sniffata prevale ogni volta sulla volontà di procedere alla disintossicazione in modo serio e risolutivo e non solo per gettare fumo negli occhi altrui. Uscito senza benefici reali da un periodo di riabilitazione, il ragazzo diventato adolescente e già induritosi per le frequentazioni si trasforma in pericolo per l’incolumità della madre: nel senso che ricompare all’improvviso dopo giorni di silenzio, vuole soldi, non posso dartene, li pretendo tirali fuori o spacco tutto, no, devi curarti, ti prego ti scongiuro, ed il figlio invece fa a pezzi le suppellettili che gli càpitano a tiro ed il mobilio ed infine se ne va avendo sottratto quel che gli è stato possibile, sì, con la forza.

Quanti, quanti si ritroveranno in una narrazione come questa. Ma una madre ci spera sempre, e ci crede con tutte le sue forze nel giorno in cui il ragazzo accetta controvoglia di entrare finalmente in una comunità solida, lontana dai contatti usuali e dalle possibili tentazioni conseguenti, metti 200 e più chilometri ed una frontiera fra te e la scaturigine del tuo disagio ed avrai mosso le gambe nella direzione giusta e con un passo decisivo; per di più la tua presenza lì sarà sorvegliata con discrezione, e rimarrai ospite sino alla maggiore età, e disporrai del tempo necessario per maturare e per indirizzarti su una linea ben diversa da quella cui sei stato abituato, e magari ci sarà anche modo per ricostruire un rapporto interfamiliare – almeno con la madre, ché l’ultima traccia del padre porta verso Londra ed oltre e non è fresca – in cui l’unica pretesa possibile si chiama amore. L’amore di cui quella donna resta latrice, combattuta tra la sua natura di persona generosa ed i rischi cui ella si espone. Perché sì: emerge – e qui l’attestazione viene dai racconti delle amiche e degli amici – che sullo sfondo rimane la paura, paura del “dopo”, paura del tempo in cui di nuovo non vi sarà una barriera a difendere la donna dal figlio, se ancora violento, e/o da quanti appaiono al suo fianco. Così penseremmo: quella donna teme per sé, e teme perché immagina che la scaturigine della sua ansia sia lì, in un punto preciso, in una persona precisa.

Sarebbe tutto raccontato, a questo punto, qualora vi fosse un epilogo funesto; tutto sarebbe scritto, spiegato, persino in rispondenza ad una dimensione cronistica laddove il “come” più il “perché” ci dà in equazione il “chi”. Ma la storia, accanto ai milioni di Caino e di Abele dai connotati e dalle pulsioni stozzati con l’accetta, è in qualche caso da leggersi a pagine inverse; pensate ad un Abele che ad un tratto incominci ad andare alla deriva e d’improvviso si imbeva del fiele che abbiamo sempre visto nel solo animo di Caino, ed in immediata coincidenza pensate ad un Caino che sì, l’amaro in sé conserva, ma nell’occorrenza della tragedia nulla abbia a che vedere con il fatto di sangue, e che l’esito del delitto egli soltanto scopra o apprenda. Ci si sorprenderebbe, per l’aberranza di tale vicenda dal solco della “normalità” criminologica; ci si stupirebbe, ma si avrebbe anche contezza di quanto sia importante il non saltare mai alle conclusioni nemmeno quand’esse si manifestino come inevitabili.

Un giorno, forse e senza forse, in cronaca dovremo ancora leggere del ritrovamento di un cadavere, e dell’esservi lì, oltre al corpo della vittima, un giovane dal passato burrascoso e dall’oggi pervaso di tenebre. Quel giovane, già. Oh no, signore: l’altro.